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Shameland – Capitolo 10: Il dominatore dei Tuoni

– ATTENZIONE: I CONTENUTI DI SHAMELAND SONO RIVOLTI A UN PUBBLICO DI MAGGIORENNI. –

Shameland è una storia ironica, dissacrante e spesso volgare. Mette a nudo l’indecenza del fantasy degli ultimi tempi e non ha paura di farlo nella maniera più dura e diretta possibile.

Questo disclaimer è d’obbligo sia per avvisare i deboli di cuore, sia tutti i nostri lettori non ancora in età da patente che forse è meglio che cambino articolo, prima di ritrovarsi davanti contenuti disturbanti o troppo espliciti.

È anche vero che da quando si trovano orde di fan in visibilio per il trono di spade, sembra che il sesso (esplicito), le stragi (con smembramenti) e il turpiloquio (gratuito) siano stati sdoganati nella letteratura, ma noi preferiamo avvisare lo stesso. Per questo motivo, proseguire nella lettura, rappresenta una implicita accettazione di questo avviso e dei contenuti che potreste trovare

Arcibald si strinse nel piumone, stava sognando una torta grande come una casa, ricoperta di panna e decorata con fragoline e fiori di glassa blu.
Allungò la paffuta mano verso un fiore, lo prese portandosi via un pugno di spumosa delizia e si infilò il tutto in bocca, pugno compreso. Deglutì senza neanche masticare, ruttò di gusto.
Quando stava per prendere un altro pezzo qualcosa gli afferrò la gamba, sentì freddo di colpo, tremò. Una mano nera, spuntata fuori dal pavimento, la mano stringeva forte e Arcibald non aveva la forza per opporsi. Scoppiò a piangere.
«Aiutò» gridò, ma nessuno venne a salvarlo, le lacrime scendevano lungo le guance brufolose, poi una gelida goccia gli si insinuò nell’orecchio destro, una luce bianca.
Si svegliò.
«Futuro Signore Oscuro™, la battaglia sta per cominciare.»
Arcibald strabuzzò gli occhi, aveva l’intensa luce sparata dritta in faccia e ci mise qualche secondo prima di riconoscere i tratti di quella strana cosa che rispondeva al nome di Katarrat.
Il piumone gli era stato tolto e ora giaceva a terra, sulla terra battuta che costituiva il pavimento della tenda.
«Ho freddo. Voglio stare qui a dormire» protestò.
«Signorino, devo ricordarvi le parole di vostro padre?»
«Non mi interessa. Io di qui non mi muovo.» Incrociò le braccia davanti al petto e affondò il mento nel doppiomento.
«Katarrat, se protesta, voglio che leghi quella palla di lardo al suo criceto da battaglia come un salame e lo mandi all’attacco contro l’esercito dei Bbbuonhy™.» Citò Katarrat. «È questo che volete? Essere legato sulla schiena di quell’animale?»
«Non mi importa. Io di qui non mi muovo.»
Katarrat sbuffò e uscì dalla tenda.

«Va bene! Va bene! Cavalco! Ma slegatemi! Per favore, slegatemi!» piagnucolò Arcibald, le corde gli stringevano l’addome e le flaccide gambe, sentiva che gli scavavano nella pelle.
«Non posso. Se poi vi rimettete di nuovo a fare i capricci?» chiese Katarrat.
«No, no! Lo giuro! Guiderò le truppe in battaglia! Vi pregooo!» tirò su col naso, ma non riuscì a evitare che del moccolo gli colò giù lungo la guancia. Per come era legato poteva vedere il cielo: c’era il sole, Arcibald amava il sole.
“Papà, perché mi fai questo?” pensò mentre sentiva che la stretta delle corde veniva allentata e infine dissolta del tutto. Katarrat e un altro orchetto lo aiutarono ad alzarsi, gli fu fatta portare una sella e fu fatto montare sopra al criceto mannaro.
Arcibald accarezzò il pelo morbido della nuca e vi appoggiò le guance sopra, era così caldo.
«Come sei bello» disse «non può essere che tu combatta in battaglia, sei troppo tenero, ti porterò con me a palazzo stasera.»
«Questi criceti sono allenati ad uccidere» gli spiegò Katarrat «riescono a fare tremilacinquecento giri di ruota in un minuto.»
Arcibald spalancò la bocca. «Ohhhhh!»
«Se siete pronto, ho un’armatura per voi. Non ce n’erano della vostra taglia, così ci siamo… arrangiati.»
«Sono pronto» Arcibald annuì con determinazione e si issò dritto.
Un orchetto arrivò con quattro cuscini, un altro con del nastro isolante, e un altro ancora reggeva una pentola con dei ciuffi di cotone che spuntavano.
«Si dorme?» la speranza di Arcibald durò un battito di ciglia. I cuscini gli vennero posizionati addosso sull’addome e sulla schiena e poi uniti con il nastro, fecero otto giri. La pentola al cotone gli fu calcata in testa, anch’essa venne bloccata col nastro, facendolo passare sotto il mento e sopra la testa per tre volte.
«E ora» disse Katarrat con fare solenne «la vostra arma.» Estrasse dal fodero una spada lunga con delle strane incisioni blu sopra. Le incisioni pulsavano, si modificavano, i riflessi emanati dalla lama sembravano fiamme argentee, era uno spettacolo magnifico.
Arcibald tese una mano per prenderla, ma Katarrat gli scoppiò a ridere in faccia.
«Questa è la mia! La vostra e quella!» indicò l’orchetto al proprio fianco, che reggeva una pistola ad acqua, Arcibald la prese con aria delusa.
«Sarebbe questa?»
«È una magnifica pistola spara-tuoni. Se premerete il grilletto scatenerete dei boati infernali sul campo di battaglia! I nemici penseranno di avere gli dei a loro sfavore!»
«È un onore per me» rispose Arcibald.
“Ma a me continua a sembrare una pistola ad acqua di plastica.”
«Schieriamoci. È giunto il tempo della guerra.»

Il campo scelto per la battaglia era la pianura davanti Kap-Decaz, accanto alla città risaltava il gigantesco vulcano chiamato “l’occhio di Brodor”, l’unico elemento irregolare in una terra piatta. La vista si estendeva per chilometri e Arcibald poteva vedere una massa informe all’orizzonte diventare più grossa, minuto dopo minuto.
Osservò la propria spara-tuono, smontò il caricatore giallo e lo scrollò verso il basso: era vuoto.
“Secondo me è rotta.”
«Katarrat, non dovrebbe avere qualche carica dentro? Qualcosa?»
«È caricata a suono. Fidatevi, sul campo di battaglia farà il suo dovere.»
«Mmmh» mugugnò il Futuro Signore Oscuro™. Si voltò verso i propri uomini, o meglio, orchetti, molti erano in sella a criceti mannari come il suo; mentre alcuni, quelli delle ultime file, erano in sella a degli orsi di peluche. Anche Katarrat ne aveva uno.
«Katarrat?»
«Che c’è?»
«Voglio anch’io l’orsacchiotto.»
«Non è un orsacchiotto. È un orso.»
«Perché io ho il criceto mannaro?»
«Perché gli orsi erano finiti.»
«Dobbiamo stare qui ancora tanto? Si muore di caldo.» Asciugò la fronte con la manica. Le sue narici sensibili stavano captando puzza di sudore, piscio, e chissà cos’altro, non vedeva l’ora di tornare a palazzo e farsi un bagno caldo con la sua paperella Nancy.
I minuti passarono lenti. Arcibald sentì un languorino allo stomaco, non aveva nemmeno fatto colazione quella mattina.
«Katarrat?»
«Dimmi…»
«Ce l’hai qualcosa da mangiare?»
«No. Mangeremo dopo la battaglia.»
«Ma io ho fame!»
Katarrat scese di sella, si tolse le mutande marroni e gliele cacciò in bocca con la forza.
«Porca puttana, stai un po’ zitto!»
La risposta di Arcibald fu soffocata dalla stoffa non lavata da settimane.

Gli eserciti erano ormai a poche centinaia di metro l’uno dall’altro. Arcibald deglutì alla vista di quegli uomini. Erano brutti, grossi e dall’aria cattiva. Uno in particolare gli faceva accapponare la pelle e rizzare i peli sulla schiena, aveva un teschio al posto della testa e sparava in aria con un fucile; accanto a lui c’era il vecchio Glandalf, il suo insegnante di pianoforte.
“Cosa ci fa lui lì?”
«All’attaccooo!» gridò Katarrat, gli orchetti risposero con un urlo, i criceti mannari ruggirono e si lanciarono verso il nemico, anche quello di Arcibald, che non poté fare altro che reggersi alle redini più forte che poté e pregare.
Anche i nemici lanciarono il loro grido di battaglia e partirono alla carica.
Il vento sferzava il suo volto, sentì le viscere contrarsi e poi rilassarsi, qualcosa di molle gli riempì le mutande mentre il suo criceto mannaro si avventava su un nemico strappandogli la testa con un morso. Il corpo dell’uomo si mosse ancora nella terra insanguinata, una gamba si alzò e si riabbassò un paio di volte.
“Meno male che non ho fatto colazione.”
Si guardò intorno, sperduto, mentre tutt’intorno a lui infuriava la battaglia, i criceti mannari stavano spazzando via le truppe a piedi nemiche; tagliavano in due gli uomini con i loro artigli, e strappavano pezzi di carne o arti con le loro fauci.
Fu allora che lo vide.
Avanzava verso di lui, gli occhi iniettati di sangue. Il teschio vivente.
Arcibald spronò il criceto a scappare tirando le redini, ma questi stava mangiando il corpo del soldato e non gli prestava la minima attenzione. Impugnò la pistola, le mani tremavano, erano sudate, gli scivolò e si impigliò tra la staffa e il criceto.
Lui era vicino, scavalcò il cadavere di un orchetto, indicò Arcibald e gridò: «Lorrrrreto!»
«Eh? Cosa dici?» gli rispose, il teschio vivente lo mirò col fucile. Il criceto mannaro si volse verso di lui e gli balzò addosso, partì un colpo di fucile, ma si disperse nel cielo terso.
Arcibald riuscì a recuperare la pistola, pur stirandosi qualche muscolo della schiena, il criceto ruggì, stava per affondare i denti nel corpo del teschio.
«Aspetta, criceto bello» gli disse dando un colpetto dietro le orecchie. «Ti credevi forte, eh? Con quella tua maschera spaventosa! Uuuh!» lo schernì. «Beh, mio caro, si da il caso che stai combattendo con il futuro Signore Oscuro™ di questa terra. Il grande Arcibald!» puntò la pistola in mezzo agli occhi di quel furfante.
«E ora» disse con il tono dei protagonisti dei film di sparatorie, che gli facevano tanta paura «dì la tua ultima preghiera!» sul suo volto si dipinse un sorriso beffardo.
«Lorrreto!» rispose l’altro.
Arcibald premette il grilletto e la pianura fu attraversata da un boato incredibile, così forte che la terra stessa tremò. Il suo cuore saltò un battito, le grida della battaglia furono sovrastate da quel fragore.
Sentì il criceto sotto di lui afflosciarsi e stramazzare a terra. Morto.
La stessa sorte era toccata agli altri criceti, vide i loro cavalieri venire tirati a terra dai nemici e fucilati con un colpo in testa, i pochi orchetti sugli orsacchiotti battevano in ritirata. Uno di loro esplose in una candida nuvola di batuffoli.
«Ma cos’è successo?» Arcibald era attonito, continuava a guardarsi intorno e poi a guardare la pistola. «Ma cos’è successo?» ripeté.
Fu tirato giù per la gamba, i cuscini attutirono l’impatto col suolo, ma si morse la lingua. Il dolore lo trafisse, scoppiò a piangere e singhiozzare, sopra di lui, incombeva il teschio vivente.
Incrociò lo sguardo con gli occhi rossi del mostro e se la fece ancora addosso.
«T-t-t-t-ti prego, n-n-non u-u-u-uccidermi!» balbettò.
Il teschio vivente si tolse la maschera, rivelando il volto di un uomo normale, non era un mostro, non nell’aspetto almeno.
«Come hai detto?» chiese l’uomo.
«Ti prego, non uccidermi!» ripeté Arcibald.
«No, no, come l’hai detto prima.»
« T-t-t-t-ti prego, n-n-non u-u-u-uccidermi?!»
L’uomo si ritrasse e spalancò la bocca.
«Non ci credo! Non dirmi che l’hai visto pure tu!»
«Cosa?»
«Tropic Thunder! Dove vivo io è l’unico disco magico che funziona nella scatola delle immagini! Guardo sempre quei piccoli uomini muoversi nella scatola magica quando non sono in giro!»
«Ehm… sì…» Arcibald non aveva idea di cose stesse parlando.
L’uomo cambiò di nuovo espressione, scoprì i denti e una bavetta bianca gli colò dal lato della bocca. «Sei così grasso e bello, vorrei strapparti via la pancia a morsi.» si leccò le labbra, «mi ricordi un ippopotalamo… pippigrigio… una roba del genere.»
«N-n-no, ti prego!»
«Sai abbaiare?»
Arcibald abbaiò.
«Più forte!»
Abbaiò con tutta la forza che gli era rimasta.
«La mia cagnetta… lei non c’è più» disse l’uomo con una nota di tristezza nella voce, «voglio che tu diventi la mia nuova cagna, abbai proprio come faceva lei.»
Il suono grave di un corno da guerra risuonò per la pianura, l’uomo-teschio impugnò subito il fucile, lesto come un criceto mannaro.
«Cane Pazzo!» non si riusciva a capire da dove arrivasse la voce, a causa del vento, sembrava venire da tutte le direzioni. «Cane Pazzo! Sono Saltim!»
La terra tremò, un lampo attraverso il cielo e si schiantò proprio a pochi passi da Arcibald, l’esplosione lo ricoprì di fuliggine.
“Era un missile! Papà?”
Si volse verso sinistra, da dove era arrivato il colpo.
Un’intera formazione di carri armati stava convergendo sulla loro posizione, l’uomo indossò la maschera da teschio e sparò, ma era inutile.
“Sono arrivati i rinforzi!”
«Cane Pazzo! Sono Saltim! E sono venuto a romperti il culo!»

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