Quel giorno il mare era burrascoso. Le onde si rincorrevano velocemente con la loro cresta bianca a fare da contrasto al blu intenso e cupo delle profondità. Le nubi grigio scuro si addensavano all’orizzonte e inesorabilmente solcavano il cielo nella sua direzione macchiando e incupendo l’ardente chiarore arancione che il sole del giorno morente irradiava con i suoi ultimi attimi di vita, prima di cedere il passo al buio. La piacevole brezza della sera aveva già lasciato il posto ai venti più impetuosi che annunciano la tempesta ed il tempo stava per scadere, sarebbe dovuto ritornare a casa già da un bel pezzo, ma non poteva farlo a mani vuote.
Rivolse lo sguardo verso l’alta scogliera costellata di buchi ed anfratti dove l’aspettavano e poi di nuovo verso il fronte temporalesco che incombeva minaccioso. Aveva ancora un’altra decina di minuti scarsi. Decise di tuffarsi un’ultima volta ma quando riemerse qualche secondo dopo fu evidente che non aveva avuto fortuna. Sperò che la sua compagna fosse già tornata e senza indugiare oltre spiccò il volo.
Man mano che prendeva quota il vento si faceva più insidioso, ma non era ancora sufficientemente forte da non permettergli di controllare il volo. Compì alcuni giri per poter catturare, con le ampie ali, delle correnti ascensionali che lo portassero più in alto e quando fu soddisfatto puntò dritto verso quello spuntone di roccia che, dalla scogliera, si proiettava verso il mare. Gli piaceva atterrare lì, era stretto ma lungo e poi gli consentiva di dare un’ultima occhiata al mal tempo che era oramai sopraggiunto prima di sparire nell’alcova della scogliera che, insieme alla sua compagna, aveva scelto come luogo per nidificare. Durante la picchiata scorse una figura, sulla punta dello sperone di roccia: una ragazza. Sempre la stessa ragazza che di tanto in tanto si recava lì. All’inizio aveva provato a scacciarla, ma poi, visto che la giovane non aveva cattive intenzioni, aveva preso a tollerarla e come lui anche tutti gli altri gabbiani della colonia. La ricordava sempre in quella posa: le gambe penzoloni sul barato e lo sguardo perso all’orizzonte, come se cercasse una risposta nel grigio arancio del cielo.
Le prime gocce iniziarono la loro discesa, trasportate dal vento. Le bagnarono il viso, i capelli.
Anche uno di loro, ormai si sarebbe accorto dell’acquazzone imminente, ma lei non accenna ad andare via, pensò il pennuto.
Colto da una sensazione mai provata, il gabbiano atterrò a pochi centimetri dalla ragazza e la squadrò. Lei aveva seguito tutto il suo volo con gli occhi e quando le fu accanto gli rivolse la parola.
– Giornata sfortunata, eh? Niente pesci per i tuoi piccoli oggi?
Continuò a squadrarla, non le era mai stato così vicino
– Tieni, prendi questo. – disse ancora la giovane porgendogli un tozzo di pane che aveva estratto da una piccola sacca.
ll gabbiano osservò il pane, gracchiò un ringraziamento e con un movimento repentino del capo le strappò il cibo di mano. Le rivolse un ultimo sguardo e poi trotterellò verso un anfratto della scogliera da dove proveniva un pigolare incessante di uccellini affamati.
Rose seguì con gli occhi il pennuto, sorridendo. Un bagliore accecante, seguito a brevissima distanza da un rombo le ricordò che il temporale era giunto. Goccioloni di pioggia presero a cadere sempre più velocemente e, finalmente, la ragazza si decise ad andar via. Ripose delicatamente sotto la camicetta il ciondolo azzurro che portava al collo, sospirò, mentre la pioggia le incollava i capelli alla fronte.
– Ciao papà – disse ad alta voce, poi si voltò e corse via, diretta verso casa.
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Leria osservò il sangue allargarsi lentamente sul suo polpastrello, era un taglio piccolo, non le provocava di certo dolore, solo rimase lì a fissarlo quasi ipnotizzata tanto da escludere tutti gli altri segni, cicatrici, che col tempo si era procurata. Tutti quei segni che raccontavano della sua vita, della sue fatiche, dei vestiti che aveva cucito.
Il suono del portone che si apriva segnò la fine del suo torpore, sciolse quell’immobilità portandosi il dito tagliato alle labbra preparandosi ad attendere chi sapeva già che sarebbe entrato: l’unica altra persona che ormai aveva le chiavi della loro casa.
Sua figlia fece l’ingresso nel suo laboratorio di cucito, portando con sé l’odore della radura, del mare e della pioggia. Leria incupì ancora di più i suoi lineamenti già duri e marcati.
– Mamma – le disse la ragazza, scostandosi una ciocca bagnata dal viso.
– Rose… – le rispose in un sospiro, ma il suo viso si illuminò in un breve sorriso e allora sentì la figlia darle un bacio umido, fresco. Prima che però potesse anche solo rispondere a quel gesto, la ragazza si era allontanata. Il tempo di prendere una sedia e la figlia era nuovamente accanto a lei, la guardava negli occhi, la fissò per un attimo molto lungo, per poi iniziare un discorso che avrebbe cambiato tutto, anche il loro rapporto. Tuttavia, nessuno di loro, neanche gli alchimisti, conoscevano i fili che tira il destino e quindi Leria non fermò la figlia, anche se in fondo al suo animo scorgeva già la crepa di un nuovo baratro, proprio accanto a quello formato ormai sei anni prima.
Rose iniziò un discorso, che narrava di lei, di come avevano vissuto loro due, dei loro sforzi, delle volte in cui la vita era stata dura, di come lei avrebbe voluto far di più.
Tutti questi anni di silenzio ed ora la figlia sembrava una valanga, quell’argomento era stato un tabù ma in quel momento Rose era un fiume che straripa dagli argini. La lasciò fare, ascoltava senza interromperla, ad ogni parola le sembrava che un nuovo stiletto le entrasse nel cuore e così, a poco a poco, diventò più tesa e guardinga, quasi si aspettasse il cambio di voce impercettibile della ragazza, quello che aveva sempre quando una qualcosa l’atterriva e attraeva insieme.
– Quindi costringerò Vincent ad insegnarmi l’alchimia… almeno i rudimenti – una lunga pausa, poi più entusiasmo e meno paura, notò Leira.
– Mamma ci pensi? Potrei finalmente aiutarti, dovresti smettere di lavorare sino a tardi, svegliarti presto, diremmo basta a questa prigione. Oh mamma te lo meriti! –
Guardò sua figlia, ma non emise un suono, le sue labbra si strinsero in una linea sottile quasi ad impedirle a loro volta di gridare. Quanto un vero giuramento può legare una persona, Leira lo scoprì solo in quel momento e allora chiuse gli occhi e ricordò il posto che aveva i colori del blu, dell’argento e dell’indaco, il vento che le sferzava il volto e i progetti di suo marito, l’aria fiera e caparbia, Rose in quel momento era identica. Gli occhi della figlia, che erano quelli di lui, avevano lo stesso scintillio di determinazione, lo sapeva anche senza guardarla. Queste sono cose che una madre conosce, come l’esatta intensità dei sogni di Rose. Non poteva fermarla, a niente sarebbe valso il dolore di una madre. Il dolore ci sarebbe stato perché l’alchimia era una via senza ritorno, Vincent lo era, ma la strada, capì, era segnata.
Lentamente aprì gli occhi e posò il suo sguardo duro, uno di quelli alieni e distanti, sulla figlia.
– E sia! – disse soltanto.
Poi, per segnare la fine della conversazione, alzò l’orlo della gonna che stava cucendo all’altezza del volto, finse di controllarne la piega, tuttavia appena sentì il portone chiudersi pianse. Pianse per il dolore sempre nuovo della morte del marito, per Rose, per la sua tempra dura, per non aver supplicato la figlia.
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Molto intenso, sia l’idea geniale di utilizzare il gabbiano, sia la descrizione della madre.