Fanucci ripropone in un nuovo formato un classico della narrativa fantasy, l’Apprendista Assassino di Robin Hobb, primo libro della trilogia dei Lungavista.
Titolo | L’Apprendista Assassino |
Autore | Robin Hobb |
Data | 1995 |
Pubblicazione italiana | 2003 |
Editore | Fanucci |
Traduttore | Paola Bruna Cartoceti |
Titolo originale | Assassin’s Apprentice |
Pagine | 471 |
Reperibilità | Reperibile online e in libreria |
L’Apprendista Assassino segue le vicende di Fitz, un bastardo figlio del re-in-attesa Chevalier e una donna di cui non si conosce l’identità. Fitz viene educato e addestrato in molteplici ambiti: dal combattimento alla cura degli animali, dal leggere e scrivere al galateo. L’addestramento più importante però viene da Umbra, che gli insegna il mestiere dell’assassino. Fitz così impara ad osservare ed ascoltare, a muoversi silenziosamente e senza farsi vedere, a fare resoconti dettagliati della giornata, a conoscere i punti vulnerabili del corpo umano, e a conoscere ogni forma di veleno e il modo in cui agisce. Sta a Fitz di volta in volta decidere come agire nelle varie circostanze: una situazione conflittuale può essere risolta con la diplomazia o la morte di un personaggio scomodo? Vedere Fitz che si scervella per trovare una soluzione è interessante. In ogni caso, c’è una gran quantità di intrighi e misteri di corte da sbrogliare: solo poco verrà alla luce alla fine di questo libro. La Hobb ha costruito una saga davvero lunga su cui dipanare questa trama!
Una delle sfide più importanti che Umbra propone a Fitz è quella di prendere “in prestito” un oggetto dalla camera del Re, notoriamente ben sorvegliata. Fin da subito questa missione mette in crisi il piccolo Fitz: come può essere un uomo leale al Re, se si intrufola nella sua stanza a rubare oggetti? Ebbene: il modo in cui risolve la faccenda è brillante. Non è importante in sé come scena ai fini della trama, ma la metto sotto spoiler a prescindere.
Re Sagace deve affrontare una minaccia concreta per i Sei Ducati: l’assalto e le razzie da parte dei Pirati delle Navi Rosse. Questi Pirati, dopo aver depredato i villaggi, rapiscono degli ostaggi, mandando un messaggio preciso: se si paga il riscatto, li uccidono; se non si paga, li riportano indietro. Questa minaccia può apparire bizzarra se non si conoscono le condizioni in cui tornano questi poveri abitanti. Essi diventano “forgiati”, privati in qualche modo della loro umanità.
«Che cos’hanno che non va? Che è successo?»
Io lo sapevo.
Tutte le trame che scorrono avanti e indietro fra le persone, i legami da madre a figlio, da uomo a donna, tutte le relazioni che si estendono ai parenti e ai vicini, agli animali da compagnia e da cortile, perfino ai pesci del mare e agli uccelli dell’aria – tutte, tutte erano scomparse.
Per tutta la mia vita, senza saperlo, ero dipeso da quei fili di sentimenti per capire quando altri esseri viventi erano nelle vicinanze. I cani, i cavalli, perfino i polli li manifestavano, come gli umani. E così potevo alzare lo sguardo all’uscio prima che Burrich entrasse, o sapere che c’era un altro cucciolo appena nato nello stallo, quasi sepolto sotto la paglia. Così mi svegliavo quando Umbra apriva la porta. Perché potevo percepire le persone. E quel senso mi avvertiva sempre per primo, mi faceva sapere di usare anche gli occhi e le orecchie e il naso, per capire che cosa stessero facendo.
Ma quelli non emanavano alcun sentimento.
Immaginate l’acqua senza peso o umidità. Così erano per me. Spogliati di ciò che li rendeva non solo umani, ma vivi. Era come se vedessi le pietre levarsi dalla terra e litigare e borbottare l’una con l’altra. Una bambina trovò un vaso di marmellata, vi affondò il pugno e ne tirò fuori una manata da leccare. Un uomo adulto abbandonò la pila di stoffa bruciacchiata in cui stava frugando e la raggiunse. Afferrò il vaso e spinse via la bambina, incurante delle sue grida furibonde.
Nessuno si mosse per interferire.
La storia viene narrata in prima persona da Fitz, come se raccontasse la sua vita a posteriori. Lo stile di per sé non è malvagio: non ci sono salti di PoV, gran parte delle scene sono mostrate e ogni tanto ci sono infodump più o meno lunghi. Il problema principale è la lentezza, e ne parlo nel paragrafo apposito.
Il libro è lento, lento all’inverosimile. Questo può essere scoraggiante all’inizio: solo a pagina 80 mi sono sentito più coinvolto nella storia, ossia quando Fitz inizia l’apprendistato come assassino. La Hobb si dilunga mostrando scene su scene del quotidiano: a me piace in generale il quotidiano, ma all’ennesima scena in cui Fitz pulisce la stalla o striglia la cavalla storco il naso. Si sarebbero potute sfrondare un centinaio di pagine e il libro ne avrebbe beneficiato. Vi faccio un esempio a caso di una parte noiosa… la metto sotto spoiler per la lunghezza e perché è verso la fine del libro. Chiaramente non tutto questo pezzo è trascurabile, ma una buona parte poteva essere sintetizzata meglio.
Malgrado tutta l’accurata programmazione il corteo sembrava nel caos. Intravidi Trancia, il valletto preferito di Regal. Regal lo aveva rimandato a Castelcervo un mese prima, con istruzioni specifiche su certi abiti che aveva bisogno di farsi fare. Trancia seguiva Mani, tentennando e facendo rimostranze e, di qualunque cosa si trattasse, Mani sembrava spazientito. Quando madama Presta mi aveva dato le ultime istruzioni su come prendermi cura dei miei nuovi abiti, aveva anche rivelato che Trancia si portava tanti nuovi abiti, cappelli e accessori per Regal che gli erano stati assegnati tre muli. Immaginai che la cura dei tre animali fosse toccata a Mani, dato che Trancia era un eccellente valletto, ma timoroso alla presenza degli animali grossi. Borrasca, il braccio destro di Regal, li seguiva minaccioso, con aria fosca e impaziente. Sull’ampia spalla portava ancora un altro baule, e forse era quell’ulteriore bagaglio che infastidiva Trancia. Presto li persi nella folla.
Fui sorpreso di trovare Burrich che controllava le cavezze dei cavalli da riproduzione e della cavalla per la principessa. Certamente avrebbe potuto farlo il responsabile dei cavalli, pensai. E poi, quando lo vidi montare in sella, compresi che anche lui avrebbe fatto parte della processione. Mi guardai attorno per vedere chi lo accompagnava, ma non scorsi nessuno degli stallieri che conoscevo, a parte Mani… Roano era già a Jhaampe con Regal. Così Burrich si era addossato quel compito. Non ne ero sorpreso.
Augusto era lì, a cavallo di una bella puledra grigia, e attendeva con impassibilità quasi inumana. Già il tempo trascorso nella confraternita lo aveva cambiato. Era stato un ragazzo grassoccio, silenzioso ma simpatico. Aveva gli stessi capelli neri e cespugliosi di Veritas, e avevo sentito dire che somigliava al cugino da ragazzo. Riflettei che con l’aumentare dei suoi doveri di praticante dell’Arte probabilmente avrebbe finito per assomigliare a Veritas ancora di più. Sarebbe stato presente al matrimonio, come una specie di finestra per Veritas mentre Regal pronunciava le promesse di matrimonio da parte di suo fratello. Regal era la voce, Augusto gli occhi, meditai fra me. Io chi ero? Il pugnale?
Montai in sella a Fuliggine, soprattutto per allontanarmi dalla gente che si scambiava addii e raccomandazioni dell’ultimo minuto. Pregai Eda che ci mettessimo in strada. Parve volerci un’eternità per formare la fila tortuosa e per finire di legare e fissare i fagotti. E poi, quasi improvvisamente, gli stendardi furono alzati, suonò un corno, e la linea di cavalli, muli carichi e persone cominciò a muoversi. Alzai lo sguardo una volta, e vidi che Veritas era addirittura uscito sulla cima della torre e ci stava guardando partire. Gli feci un cenno, ma dubito che mi abbia riconosciuto in mezzo a tanti. E poi eravamo fuori dalle porte, e salivamo lungo i tornanti fra le colline che conducevano lontano da Castelcervo e verso ovest.
Il nostro sentiero ci avrebbe portati a risalire le rive del fiume Cervo, da guadare dove era più ampio e meno profondo, vicino al confine con il ducato di Armento. Da lì avremmo attraversato le ampie pianure di Armento, in un caldo ustionante che non avevo mai conosciuto, fino al Lago Blu. Dal Lago Blu avremmo seguito un fiume chiamato semplicemente Freddo che aveva le sorgenti nel Regno delle Montagne. Dal Guado del Freddo cominciava la strada mercantile che conduceva fra le ombre delle montagne e saliva, sempre di più, fino a Passo Tempesta, e di lì alle fitte foreste verdi delle Giungle della Pioggia. Non saremmo arrivati fin là, ma ci saremmo fermati a Jhaampe, la cosa più vicina a una città che il Regno delle Montagne possedesse.
In un certo senso, fu un viaggio privo di avvenimenti, se si trascura tutto ciò che inevitabilmente avviene durante simili viaggi. Dopo i primi tre giorni o giù di lì, tutto si assestò in una quotidianità decisamente monotona, variata soltanto dai diversi paesaggi. In ogni piccolo villaggio o paese lungo la strada la gente veniva fuori ad accoglierci, presentando i loro auguri e felicitazioni ufficiali per i festeggiamenti nuziali del principe ereditario.
Ma quando raggiungemmo le vaste pianure di Armento, i villaggi si fecero radi. Le ricche fattorie e città commerciali del ducato erano lontane, a nord del nostro percorso, lungo il Fiume Vin. Percorremmo le pianure abitate soprattutto da pastori nomadi, che creavano insediamenti soltanto nei mesi d’inverno quando si stabilivano lungo le vie commerciali per quella che chiamavano ‘la stagione verde’. Oltrepassammo mandrie di pecore, capre, e cavalli; o, più raramente, i pericolosi maiali selvatici che chiamavano haragar. Tuttavia il nostro contatto con la gente di quella regione era di solito limitato alla vista delle loro tende coniche in lontananza, o di qualche pastore dritto sulla sella, che sollevava il vincastro in segno di saluto.
Mani e io rinfrescammo la nostra amicizia. Dividevamo il cibo e un piccolo fuoco da campo alla sera, e lui mi raccontava delle continue preoccupazioni di Trancia: la polvere che si infilava nelle vesti di seta, e tenere lontane le tarme dai colli di pelliccia, e il velluto che poteva consumarsi durante il lungo viaggio. Quanto a Borrasca, lo vedeva a tinte più fosche. Io stesso non ne conservavo buoni ricordi, e Mani lo considerava un compagno di viaggio opprimente, dato che Borrasca sembrava sempre sospettarlo di rubare dai bagagli di Regal. Una sera Borrasca si spinse fino al nostro fuoco, dove pronunciò laboriosamente un vago e indiretto ammonimento contro chiunque cospirava per derubare il suo padrone.
Il tempo bello reggeva, e se sudavamo di giorno la notte era abbastanza piacevole. Dormivo sdraiato sopra la coperta, e raramente mi preoccupavo di trovare altro riparo. Ogni sera controllavo i contenuti del mio scrigno, e facevo del mio meglio per evitare che le radici si seccassero completamente e che le pergamene e le tavolette si schiacciassero per lo spostarsi del carico. Una notte mi svegliai sentendo Fuliggine che nitriva rumorosamente, e mi parve che lo scrigno di cedro non fosse esattamente dove l’avevo messo. Ma un breve controllo dimostrò che tutto era in ordine, e quando lo menzionai a Mani, lui si limitò a chiedermi se stavo lasciandomi contagiare da Borrasca.
I villaggi e le mandrie che oltrepassavamo ci fornivano spesso cibo fresco, con grande generosità, quindi soffrimmo ben poche privazioni durante il viaggio. L’acqua fresca non era abbondante come avremmo voluto durante l’attraversamento di Armento, ma ogni giorno trovavamo qualche sorgente o pozzo polveroso a cui abbeverarci, quindi anche quello non fu un grosso problema.
Vidi Burrich molto poco. Si alzava prima degli altri e precedeva la carovana principale, in modo che i suoi protetti trovassero l’erba migliore da brucare e l’acqua più pulita. Evidentemente voleva che i suoi cavalli fossero in condizioni smaglianti all’arrivo a Jhaampe. Anche Augusto era quasi invisibile. Sebbene fosse tecnicamente il comandante della spedizione, lasciava l’organizzazione al capitano della sua guardia d’onore. Non riuscivo a capire se lo facesse per saggezza o per pigrizia. In ogni caso, se ne stava per lo più per conto proprio, anche se permetteva a Trancia di occuparsi di lui e di dividere la sua tenda e i suoi pasti.
Per me era quasi un ritorno all’infanzia. Le mie responsabilità erano molto limitate. Mani era un compagno allegro, e bastava poco per spingerlo a frugare nella sua vasta provvista di racconti e pettegolezzi. A volte trascorrevo quasi l’intera giornata prima che ricordassi che, alla fine di quel viaggio, avrei ucciso un principe.
Tali pensieri di solito mi venivano quando mi svegliavo nelle ore più buie della notte. Il cielo di Armento sembrava molto più fitto di stelle della notte sopra a Castelcervo, e io le fissavo e mentalmente ripassavo i modi per eliminare Rurisk. C’era un altro scrigno, minuscolo, impacchettato accuratamente dentro la sacca che conteneva i miei vestiti e gli effetti personali. Lo avevo preparato con grande preoccupazione e ansia, poiché quella missione andava eseguita alla perfezione. Doveva essere un lavoro pulito, che non sollevasse il minimo sospetto. E il tempismo era di importanza critica. Il principe non doveva morire mentre eravamo a Jhaampe. Nulla doveva gettare la minima ombra sugli sponsali. E neppure doveva morire prima che la cerimonia fosse conclusa a Castelcervo e il matrimonio regolarmente consumato, perché poteva sembrare un cattivo presagio per la coppia. Non sarebbe stato facile organizzare la sua morte.
A volte mi chiedevo perché la missione fosse stata affidata a me invece che a Umbra. Era una specie di prova, e se l’avessi fallita sarei stato messo a morte io stesso? Forse Umbra era troppo vecchio per questa sfida, o troppo prezioso per essere messo a repentaglio? Forse non poteva smettere di occuparsi della salute di Veritas? E quando strappavo la mia mente da queste domande, tornavo a chiedermi se usare una polvere che avrebbe irritato i polmoni danneggiati di Rurisk per farlo soffocare a morte. Forse potevo cospargerne il suo cuscino e il letto. O dovevo offrirgli un rimedio contro il dolore, che lo avrebbe reso dipendente e lo avrebbe attirato verso una morte nel sonno? Avevo un tonico che diluiva il sangue. Se i suoi polmoni già sanguinavano in maniera cronica, sarebbe potuto bastare quello per dargli il colpo finale. Possedevo anche un veleno rapido e mortale e insapore come l’acqua, se avessi trovato un sistema per essere sicuro di farglielo incontrare in un momento sufficientemente lontano nel tempo. Nessuno di questi pensieri conciliava il sonno, eppure di solito l’aria fresca e la fatica di cavalcare tutto il giorno bastavano a contrastarli, e spesso mi svegliavo al mattino, elettrizzato dal nuovo giorno di viaggio.
Quando finalmente avvistammo il Lago Blu, fu come un miracolo in lontananza. Da anni non mi trovavo così lontano dal mare per tanto tempo, e fui sorpreso dall’impressione che mi fece. Ogni animale nella carovana dei bagagli riempì i miei pensieri con l’odore pulito dell’acqua. Il panorama divenne più verde e più dolce mentre ci avvicinavamo al grande lago, e dovevamo stare attenti a impedire ai cavalli di ingozzarsi d’erba durante la notte.
Schiere di barche a vela svolgevano i loro commerci sul Lago Blu, e i colori delle vele indicavano non solo la merce che vendevano ma la famiglia per cui navigavano. Gli insediamenti lungo il lago erano costruiti su palafitte. Fummo accolti favorevolmente, e banchettammo a pesce d’acqua dolce, che aveva un sapore strano per il mio palato abituato ai pesci del mare. Mi sentivo un grande viaggiatore, e Mani e io fummo quasi travolti dall’opinione che avevamo di noi stessi quando una notte alcune ragazze dagli occhi verdi, di una famiglia di commercianti di grano, arrivarono ridendo al nostro fuoco. Avevano portato con loro piccoli tamburi dai colori brillanti, e ciascuno emetteva una nota differente; suonarono e cantarono per noi fino a quando le loro madri vennero a cercarle e le riportarono a casa fra mille rimproveri. Fu un’esperienza esaltante, e quella notte non pensai affatto al principe Rurisk.
Ora viaggiavamo verso ovest e verso nord, trasportati attraverso il Lago Blu su chiatte che mi sembravano del tutto inaffidabili. Sull’altra riva ci ritrovammo improvvisamente in terre boscose, e i giorni caldi di Armento divennero un lontano ricordo. Il nostro sentiero ci condusse attraverso immensi boschi di cedri, punteggiati qua e là da macchie di betulle bianche e spruzzati di ontani e salici nelle zone un tempo bruciate. Gli zoccoli dei nostri cavalli rimbombavano sulla terra nera del sentiero nella foresta, e gli odori dolci dell’autunno ci circondavano. Notammo uccelli insoliti, e un giorno scorsi un grande cervo di un colore e aspetto che non avevo mai visto e non vidi mai più. I cavalli non trovavano da brucare di notte, e fummo contenti del grano che avevamo portato dalla gente del lago. Di notte accendevamo i fuochi, e Mani e io condividemmo una tenda.
Ormai la nostra via ci conduceva costantemente verso l’alto. Salimmo tortuosamente fra i pendii più ripidi, e sicuramente stavamo addentrandoci fra le montagne. Un pomeriggio incontrammo una delegazione da Jhaampe, mandata ad accoglierci e a guidarci. Da quel momento ci parve di viaggiare più in fretta, e ogni sera venivamo intrattenuti da musicisti, poeti e giocolieri, e banchettavamo con le prelibatezze che ci offrivano. Fu fatto ogni sforzo per accoglierci e onorarci. Eppure, li trovai piuttosto strani e quasi spaventosi nelle loro differenze. Spesso fui costretto a ricordare quello che mi avevano insegnato tanto Burrich che Umbra riguardo alle belle maniere, mentre il povero Mani si isolò quasi completamente da questi nuovi compagni di viaggio.
La storia è ambientata nei Sei Ducati, principalmente a Castelcervo, sede della corte del Re. L’ambientazione dei Sei Ducati è ben curata nel complesso, ma poco originale; direi che non si discosta dal fantasy classico medievale/cavalleresco.
La magia è uno dei punti forti ed è particolarmente originale: viene spiegata poco ma mostrata spesso nei suoi effetti (tuttavia non sempre chiari).
Lo Spirito viene spiegato all’inizio da Burrich al piccolo Fitz…
«Lo Spirito» cominciò lentamente. Il suo viso si fece torvo, e lui si guardò le mani come ricordando un antico peccato. «È il potere del sangue della bestia, proprio come l’Arte viene dal lignaggio dei re. Comincia come una benedizione, perché ti permette di comunicare con gli animali. Ma poi ti prende e ti trascina in basso, ti rende una bestia come loro. Fino a quando non rimane in te neanche un brandello di umanità, e tu corri e agiti la lingua e assaggi il sangue, come se il branco fosse tutto quello che hai mai conosciuto. Fino a quando nessuno potrebbe guardarti e pensare che tu sia mai stato un uomo.» La sua voce aveva continuato ad abbassarsi mentre parlava, e non mi guardava, ma si era rivolto verso il fuoco e fissava le fiamme morenti. «Alcuni dicono che a quel punto un uomo prende la forma della bestia, ma uccide con la passione di un uomo piuttosto che con la semplice fame della bestia. Uccide per uccidere…
«È questo che vuoi, fitz? Annegare il sangue regale che è in te nel sangue della caccia sfrenata? Essere una bestia fra le bestie, semplicemente per la conoscenza che questo ti permette? Pensa anche solo a quello che succede prima. L’odore del sangue fresco ti cambierà il carattere, la vista della preda annullerà i tuoi pensieri.» La sua voce divenne ancora più tranquilla, e io sentii il disgusto che provava mentre mi chiedeva: «Ti sveglierai febbricitante e sudato perché da qualche parte c’è una cagna in calore e il tuo compagno la sente? Sarà questa la conoscenza che porterai nel letto della tua signora?»
L’Arte viene spiegata in più punti nel libro, ma la descrizione più dettagliata si ha all’inizio del capitolo 15 (ogni capitolo ha una breve introduzione in corsivo in cui si danno informazioni su qualche aspetto dell’ambientazione).
L’Arte, nella sua forma più semplice, consiste nella trasmissione del pensiero da una persona a un’altra. Può essere usata in vari modi. In battaglia, per esempio, un comandante può comunicare semplici informazioni e ordini direttamente ai suoi subordinati, se sono stati addestrati a riceverli. Un potente adepto dell’Arte può usare il suo talento per influenzare anche le menti non addestrate come quelle dei suoi nemici, infondendo in loro timore o confusione o dubbio. Pochi hanno tanto talento. Ma chi è incredibilmente dotato nell’Arte può aspirare a parlare direttamente con gli Antichi, coloro che si trovano appena al di sotto degli dèi. Pochi hanno mai osato farlo, e ancora meno hanno ottenuto quello che chiedevano. Tramite l’Arte un uomo è in grado di fare domande agli Antichi, così si dice, ma potrebbe ottenere risposta non alla domanda che ha posto, bensì a quella che avrebbe dovuto porre. E quella risposta può essere tale che non si può udirla e vivere. Poiché quando si parla con gli Antichi l’uso dell’Arte è più dolce e più pericoloso. E ogni praticante dell’Arte, debole o forte, deve sempre stare in guardia contro questo rischio. Infatti usando l’Arte il praticante prova un’intensità vitale, un sollevarsi dell’essere, che può distrarlo dal trarre il successivo respiro. Potente è questo sentimento, perfino negli usi più comuni dell’Arte, e conduce alla dipendenza, se l’intento non è forte. Ma l’intensità di questa esaltazione quando si parla con gli Antichi è qualcosa per cui non abbiamo paragone. Sia i sensi che la coscienza possono essere strappati per sempre a un uomo che usi l’Arte per parlare con gli Antichi. Quell’uomo muore pazzo, ma è anche vero che muore pazzo di gioia.
Questa spiegazione sulle due forme di magia è necessariamente riduttiva: si lascia intuire abbiano anche altri aspetti.
Giusto per darvi un accenno di quelle che sono le credenze popolari nei Sei Ducati, eccovi una descrizione del Butterato.
Il Butterato è una figura ben nota nei racconti popolari e nelle tragedie dei Sei Ducati. È ben povera la compagnia di marionette che non possieda una marionetta del Butterato, non solo per i suoi ruoli tradizionali, ma anche come presagio di disastro nelle produzioni originali. A volte la marionetta del Butterato viene semplicemente mostrata sullo sfondo, per dare una nota sinistra alla scena. Nei Sei Ducati, è un simbolo universale.
Si dice che le radici della sua leggenda risalgano ai primi abitanti dei ducati; non alla conquista da parte dei Lungavista delle Isole, ma addirittura alla colonizzazione più antica. Perfino gli Isolani conoscono una versione fondamentale della leggenda. È una storia di avvertimento, della collera di El, il dio del mare, quando viene dimenticato.
Quando il mare era giovane, El il primo Antico, credeva nella gente delle isole. A loro donò il suo mare, e con esso tutto ciò che vi nuotava, e tutte le terre che il mare toccava dovevano essere loro. Per molti anni, la gente fu grata. Pescava nel mare, viveva sulle sue rive dove lo desiderava, e depredava chiunque altro avesse osato dimorare dove El aveva concesso loro di regnare. Anche coloro che si azzardavano a navigare nel loro mare erano una preda legittima. Il popolo prosperò e crebbe robusto e forte perché il mare di El era come uno spigolatore. Le loro vite erano dure e pericolose, ma in quel modo i loro ragazzi crescevano per diventare uomini forti, e le loro fanciulle si trasformavano in donne senza paura al focolare o sul ponte. Il popolo rispettava El e a quell’Antico offriva le lodi e soltanto in suo nome malediceva. Ed El era orgoglioso del suo popolo.
Ma El, nella sua generosità, concesse al suo popolo troppe benedizioni. Nei duri inverni non ne morivano abbastanza, e le tempeste che mandava erano troppo miti per vincere la loro perizia di naviganti. Così il popolo crebbe. Insieme crebbero anche le loro mandrie e le loro greggi. Negli anni di prosperità, i bambini deboli non morivano, ma crescevano e rimanevano a casa, e si dedicavano a coltivare la terra per nutrire le greggi e le mandrie floride e gli altri deboli come loro. Gli zappaterra non lodavano El per i suoi venti forti e per le correnti favorevoli ai pirati. Invece, benedicevano e imprecavano solo in nome di Eda, che è l’Antica di coloro che arano e coltivano e si occupano delle bestie. Così Eda benedisse i suoi deboli seguaci aumentando le loro piante e animali. Questo non piacque a El, ma egli li ignorò, dato che aveva ancora il popolo ardito delle navi e delle onde. Loro benedicevano nel suo nome e imprecavano nel suo nome, e per incoraggiare la loro forza mandò loro tempeste e freddi inverni.
Ma con il passare del tempo, i fedeli seguaci di El diminuirono. La gente debole della terra sedusse i naviganti, e partorì loro figli adatti soltanto a occuparsi della terra. E il popolo lasciò le rive dell’inverno e i pascoli coperti di ghiaccio, e si spostò verso sud, verso le dolci terre dell’uva e del grano. Erano sempre meno quelli che venivano ogni anno ad arare le onde e a mietere i pesci che El aveva loro assegnato. Sempre più raramente El udiva il suo nome in una benedizione o in un’imprecazione. Finché alla fine venne un giorno in cui rimase solo uno che benediva o imprecava soltanto nel nome di El. Era un vecchio ossuto, troppo anziano per il mare, con le giunture gonfie e doloranti e pochi denti in bocca. Le sue benedizioni e le sue imprecazioni erano deboli e insultavano più che compiacere El, che non sapeva cosa farsene dei vecchi traballanti.
Alla fine venne una tempesta che avrebbe dovuto porre fine al vecchio e alla sua barchetta. Ma quando le fredde onde si chiusero su di lui, il vecchio si aggrappò al relitto della barca e oso implorare misericordia da El, anche se tutti sanno che la misericordia non è in lui. El fu così infuriato da quella bestemmia che non volle accogliere il vecchio nel suo mare, e invece lo rigettò sulla riva, e lo maledì in modo che non potesse più navigare, ma non potesse nemmeno morire. E quando il vecchio strisciò fuori dalle acque salate, il suo viso e il suo corpo erano butterati come se fosse stato coperto di cirripedi, e si rimise in piedi barcollando e si avviò verso le terre deboli. E dovunque andasse, vedeva soltanto deboli zappaterra. E li avvisò della loro follia, e che El avrebbe fatto sorgere un popolo nuovo e più coraggioso a cui avrebbe affidato la loro eredità. Ma il popolo non volle ascoltare, tanto era diventato fiacco e testardo. Eppure, dovunque andasse il vecchio, l’epidemia lo seguiva. E diffuse le malattie contagiose come il vaiolo, quelle a cui non importa se un uomo è forte o debole, duro o molle, ma che prendono tutti quelli che toccano. E questo era appropriato, perché tutti sanno che le infezioni vengono dalla cattiva polvere e si diffondono zappando la terra.
Così narra il racconto. E così il Butterato è diventato il messaggero di morte e malattia, e un rimprovero per coloro che vivono vite deboli e facili perché la loro terra è fertile.
Ci sono molti personaggi importanti, così come sono molti e complessi i legami che stabiliscono tra loro. Sarebbe opportuno a inizio libro fare un elenco con i nomi e i rispettivi ruoli dei personaggi.
Protagonista assoluto del libro: tutto viene filtrato dal punto di vista di Fitz. Ci ho messo un po’, ma alla fine mi sono affezionato a questo personaggio. Il giovane Fitz si muove in un mondo pericoloso e pieno di intrighi: il suo ruolo di assassino di corte sicuramente non è facile. Non aiuta il fatto che molte persone lo odiano per svariati motivi: costituisce una minaccia o una risorsa per il regno? È questo che si è chiesto Re Sagace prima di prenderlo sotto la propria ala. Fitz costituisce un arma per i Sei Ducati, e deve continuamente ingegnarsi per difenderli. Particolare è il suo rapporto con gli animali, special modo con cani e cavalli, grazie allo Spirito: questa sua affinità (che Burrich gli vieta di sfruttare), gli sarà sempre utile nel corso della storia. In generale è un bel personaggio, ma preparatevi a infinite paranoie e domande: è decisamente complessato!
Burrich è il capo stalliere del re. Un tempo braccio destro del re-in-attesa Chevalier, ora si occupa principalmente dei cavalli e dei cani a corte. A lui viene affidato il piccolo Fitz: il rapporto tra i due sarà sempre altalenante, un rapporto amore-odio. Spesso si allontanano e poi si riavvicinano: nonostante l’affetto che scorre tra i due, la loro relazione in questo libro è sempre molto tesa.
A metà libro, Fitz parla così di Burrich:
Odiavo Burrich. A volte. Era presuntuoso, tirannico e insensibile. Si aspettava che io fossi perfetto, eppure mi diceva senza mezzi termini che non sarei mai stato ricompensato per questo. Ma era anche aperto, e sincero, e convinto che io potessi compiere quello che richiedeva da me…
L’uomo stesso era strano. La sua veste era del colore del vello di pecora non tinto, lavato solo occasionalmente e non di recente. I capelli e la barba erano più o meno dello stesso colore e sembravano altrettanto in disordine. Malgrado ciò, non riuscivo a decidere quanti anni avesse. Alcune malattie lasciano sfregi sul volto. Ma non avevo mai visto un uomo così segnato, con decine di minuscole cicatrici, di un violento rosa e rosso come piccole bruciature, e livide perfino nella luce gialla della lampada. Le sue mani erano tutte ossa e tendini avvolti in una pelle bianca come carta. Mi stava scrutando, e perfino alla luce della lampada i suoi occhi erano del verde più penetrante che avessi mai visto. Mi ricordavano gli occhi di un gatto quando caccia; la stessa combinazione di gioia e ferocia.
Personaggio ossuto e misterioso, Umbra si preoccupa di addestrare Fitz come assassino. Convoca Fitz a suo piacimento, in una stanza di cui non si sa l’accesso e piena di oggetti curiosi e animali. È capace di travestirsi in modo eccezionale: ma non vi dico in cosa si trasforma!
Altri personaggi importanti sono Galen, il maestro dell’Arte, i principi Veritas e Regal, dama Pazienza, la principessa Kettricken del Regno delle Montagne e… il Matto, uno dei miei personaggi preferiti, di cui si sa pochissimo.
Bisogna armarsi di pazienza per affrontare Robin Hobb, perché solo andando in fondo riuscirete ad apprezzarla a pieno. E se non fosse per la trama molto lenta, il libro meriterebbe decisamente di più. Tuttavia, mi ha instillato abbastanza curiosità… quindi comprerò i seguiti. Anche perché la Fanucci ha annunciato la ristampa de L’Assassino di Corte. Quindi… se vi piace il fantasy classico, con dei personaggi brillanti e una magia ben sviluppata, questo libro fa per voi!
Voto: 7.5
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Mi hai soddisfatto, Robin Hobb!
(998)
Bella recensione, beh io sono uno di quelli che “guai a toccare Robin Hobb” però sono d’accordo con tutto quello che hai scritto, anche sul problema della lentezza della narrazione, sappi però che è un problema esclusivamente del primo libro, la storia si dipana benissimo nei successivi e i personaggi che si incontrano sono splendidi, soprattutto “il matto” e il lupo “occhidinotte”, leggi anche i successivi libri e ti innamorerai di queste trilogie (ce ne sono due ed’è appena iniziata la terza). ps: se poi tu fossi curioso di conoscere i motivi per i quali è nata la “forgiatura” beh … lo saprai nella seconda trilogia
Ottima recensione, e anche se adoro la Hobb, concordo appieno sull’analisi. Ma si sa, l’amore è cieco, ergo: leggete dei Lungavista, ne uscirete arricchiti =^__^=