No, il titolo di questo articolo non vuole essere una provocazione, ma un autentico invito (se non una regola), e forse potrebbe essere esteso ai protagonisti dei romanzi in generale.
In effetti, non sono pochi i fantasy (forse tutti) in cui il protagonista parte da una situazione di degrado sociale e inizia a farsi strada nel mondo. Il “classico prescelto” è quasi sempre un contadino/stalliere/spulciapecore di giovane età le cui conoscenze del mondo si circoscrivono al villaggio in cui vive. Non è questa la sede per discutere del fatto che simili protagonisti siano stati utilizzati troppo e male, ma è altrettanto vero che i migliori romanzi fantasy abbiano saputo sfruttare un simile elemento nel modo giusto, mentre tantissimi libri di scarso valore dimostrano in questo punto la propria debolezza.
Qual è dunque la differenza tra i romanzi di spessore e quelli di bassa qualità?
La differenza la si riscontra proprio nella gestione delle differenze sociali dei personaggi. Nelle trame ben riuscite, il lettore si immedesima al meglio nel protagonista poiché va ad affiancarlo nello stupore verso il mondo che si sta rivelando. Per fare un esempio classico, posso dire che nel “Signore degli Anelli” ci si ritrova facilmente in personaggi come Bilbo e Frodo, poiché costoro vivono in una casa tranquilla e in una situazione “normale”. Quando iniziano il loro viaggio scoprono invece che il mondo in cui si trovano è molto vasto e così il loro stupore si riflette alla perfezione nel lettore.
In storie meno curate invece questo senso di stupefazione è gestito con minor bravura. Il protagonista allora dimostra sempre troppo presto di sentirsi al “suo posto” e il lettore finisce per non immedesimarsi in lui, poiché avverte sì di entrare in un universo nuovo, ma al contempo nessun personaggio della trama lo accompagna in questa scoperta.
Un autore che voglia risolvere questo problema, credo che debba guardare proprio alle differenze sociali dei personaggi, molto più marcate in un’ambientazione fantasy medievaleggiante rispetto a quanto lo potrebbero essere oggi.
Per dirla in parole povere, oggi c’è poca distanza tra persone di due nazioni diverse (parlo dell’occidente) e di ceto sociale diverso. Questo fa sì che quando andiamo in un altro paese, ci troviamo in un luogo estraneo, ma non inconcepibile. In un mondo fantasy invece il lettore deve entrare in una realtà completamente nuova e il modo migliore per permetterglielo e far sì che il protagonista della storia viva gli stessi sentimenti di stupore.
Del resto, nel medioevo le differenze sociali e culturali erano molto più grandi rispetto a oggi, perciò andare in un altro luogo significava entrare davvero in un altro mondo. Figuriamoci dunque cosa potrebbe avvenire in un’ambientazione con razze anche diverse da quella umana.
A questo si aggiunge l’enorme distanza sociale che c’era in passato tra un contadino e un nobile. Una simile differenza oggi è molto meno marcata, poiché il modo di vivere di un qualunque cittadino è molto più vicino a quello dei ricchi, che non a quello dei poveri (non ditemi che non è vero, poiché se siamo qui seduti davanti a un computer a parlare di mondi immaginari è evidente che abbiamo la pancia piena e non siamo messi troppo male).
Nel medioevo invece una persona che viveva del proprio lavoro era enormemente distante dalle ricchezze, dai problemi del mondo, dai sovrani e dalle questioni politiche. Non a caso i re erano considerati quasi delle divinità sino a non troppo tempo fa.
Un buon fantasy deve dunque rendere palpabile la differenza, sociale e geografica, (dovuta anche ai fattori economici di cui abbiamo già parlato a lungo) tra il personaggio del popolo e quello dell’alta società, oppure tra quello elfo e quello umano. In tal modo il lettore, se vedrà la vicenda tramite gli occhi del popolano (o in generale della “persona sfortunata”), parteciperà al suo stupore e entrerà assieme a lui nel mondo meraviglioso che lo circonda.
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Eh il titolo ci sta. Io non presento mai i miei come “sfigati” però uso la combinazione di termini “improbabili” e “sventurati”, che è poi molto in linea con l’ambientazione e gli echi dell’epica, dove spesso ambiento le loro avventure 🙂
Sfigato? In che senso? Il pastorello strappato al suo gregge e alla sua famiglia vuol tornarsene a casa il più velocemente possibile. Ricordi la storia dell’Aquila che si credeva una gallina, di Anthony De Mello? Nasce Aquila, ma il suo uovo viene covato da una gallina e lei crede di essere una gallina, non volerà mai e morirà da gallina.
Va bene un “concio natale” come cantava un Malandrino di mia conoscenza, ma più che uno sfigato deve essere un “diverso” e avere qualche marcia in più, altrimenti: non ci sarà nessun conflitto a mettere in moto gli eventi o, al sopraggiungere del medesimo, il lettore non potrà godere del “lieto fine” cui ha diritto.
Andrew, la tua risposta è arguta e simpatica, ma non mi trova d’accordo. 😉
Essere un “diverso”, avere una marcia in più, non implica per assioma nessun conflitto. Una persona geniale ha sicuramente una marcia in più, ma non per questo ha una vita complicata per definizione (semmai il contrario).
Il conflitto narrativo emerge invece quando il protagonista (“diverso”, geniale o stupido che sia) è colpito da avversità, quando si ritrova coinvolto in problemi e dunque (per dirla in termini contemporanei e popolari) quando è uno “sfigato”.
Per quanto riguarda i tuoi esempi, mi sembrano confermare il mio punto di vista.
Il pastorello strappato al suo gregge e alla sua famiglia (dunque molto sfortunato) vuol tornarsene a casa il più velocemente possibile (ma lungo il tragitto potrebbe incontrare mille difficoltà).
Ecco che il conflitto di questa semplice storiella può nascere dunque per “sfighe” esterne e non per una diversità connaturata del protagonista.
Per la storia di De Mello, quale sfiga maggiore poteva capitare all’aquila se non essere scresciuta da una gallina? (E pur essendo “diversa”, se non subentreranno eventi esterni a muoverla, rimarrà per sempre nella propria convinzione di gallina).