Gli uomini-lupo rivestono grande importanza nella mitologia e nella cultura norrena ma, prima di procedere, è necessario rimarcare la differenza tra licantropi in senso stretto (ossia uomini che, come Licaone, mutano il proprio corpo fino a divenire lupi), in norreno noti come vargulfr, e gli ulfhednar, che, nonostante l’atteggiamento aggressivo e bestiale che li domina, rimangono comunque uomini. Ciononostante entrambi sono significativi della cultura di questi popoli, del loro approccio al sovrannaturale e del loro relazionarsi con l’animale “lupo”.
Abbiamo già citato, nel primo articolo di questa rubrica, la saga dei Volsungar, una leggendaria saga in prosa, redatta alla metà del XIII secolo da un autore sconosciuto, che narra la storia della dinastia dei Volsungar (Volsunghi), il mito di Sigfrido e di Brunilde e la caduta della tribù dei Burgundi. In quest’opera assistiamo a una trasformazione di uomini in lupi per mezzo di un ben preciso strumento: Sinfjotli e il padre Sigmund vivono nella foresta combattendo e rubando; un giorno trovano due pelli di lupo in una casa in mezzo ai boschi, le indossano e diventano dei lupi, correndo e ululando, comprendendosi a vicenda nella loro lingua animalesca. Allo scadere del decimo giorno, dopo numerose efferatezze compiute, il maleficio si esaurisce e i due recuperano forma umana, bruciando le pelli di lupo.
Nella stessa saga, nel capitolo quinto, è una donna, la madre di Re Siggeir, a trasformarsi in lupo grazie a una pozione magica e a uccidere i figli di Volsung, tranne proprio Sigmund.
È interessante notare che l’attivazione della trasformazione è dovuta a stregoneria o all’indossare delle pelli di lupo, un chiaro riferimento agli ulfhednar, il cui nome significa proprio “casacche di lupo”, un clan di guerrieri che, come ricordiamo, riprende antiche pratiche sciamaniche diffuse nelle società di cacci e raccolta. La connotazione negativa della trasformazione in lupo, con tutte le efferatezze compiute dall’animale, risente delle politiche missionarie messe in atto dal Cristianesimo per convertire i nordici pagani, deridendo, infamando e criticando le loro tradizioni giudicate barbare.
Di poco precedente la saga di Egill Skallagrimsson (nota come Egils saga), un poema epico islandese, anche questo di autore incerto (sebbene Snorri Sturluson sia indicato come possibile autore), risalente alla terza o quarta decade del XIII secolo. Protagonista della saga è, appunto, Egill, un contadino islandese divenuto un vichingo e poi uno scaldo, il cui nonno era Ulfr Bjalfason. Di fisico robusto e possente, imbattibile in battaglia, alla sera si incupiva e diveniva nervoso, andando a letto presto, tanto che la gente prese a considerarlo come un mutaforma e a chiamarlo col nome di Kveldulfr (“lupo della sera”), un personaggio noto e ricorrente in altre saghe islandesi, ad esempio nel Landnámabók (manoscritto sulla colonizzazione islandese).
Come ricorda la Isnardi, la presenza di molti nomi di persona composti con ulfr (lupo, in norreno) indicano le diverse credenze e tradizioni legate all’animale (esempi: Ulfr, Biornolfr, Hrolfr, Hundolfr, Radulf).
Un altro esempio di licantropia nelle saghe nordiche lo troviamo nella Saga di Giovanni il Giocatore (Jons saga leikara), un poema cavalleresco del XIV secolo, ispirato ai lai francesi, che racconta la storia di Jon (Giovanni, appunto), un giovane nobile francese che parte in cerca di avventure. Dopo aver ucciso un drago, riceve un lupo in premio, scoprendo che in realtà il lupo è Sigurdr, figlio del re delle Fiandre, mutato in bestia da una perfida matrigna che gli aveva scagliato un maleficio contro.
Anche Olao Magno riferisce, nella sua mastodontica opera Historia de gentibus septentrionalis, di uomini feroci che per incantesimo mutano in lupi (dedicando loro il capitolo XXXII del libro XVIII). Costoro, la notte di Natale, si riuniscono in un luogo e:
[…]la notte medesima con meravigliosa ferocità incrudeliscono, e contro la generatione humana, e contro a gl’altri animali, che non son di feroce natura, che gl’habitatori di quelle regioni patiscono molto più danno da costoro, che da quei che naturali Lupi sono, non fanno. Percioche, come s’è trovato, impugnano con meravigliosa ferocità a le case de gl’huomini, che stanno nelle selve, e sforzansi di romperle le porte, per poter consumare gl’uomini e le bestie che vi son dentro[…].
(traduzione dal latino di Remigio Fiorentino, Venezia, 1561)
Questi uomini scendono nelle cantine e le svuotano. Addirittura Olao Magno riferisce di alcuni uomini che, mutati in lupo, rubano pecore, soprattutto in Livonia, dove, a sentir lui, ve ne è numero maggiore.
Va notato che buona parte delle saghe nordiche sono redatte dopo l’avvento del Cristianesimo, che ha demonizzato le antiche religioni pagane, presentando le Divinità nordiche quasi sempre sconfitte dai santi cristiani e demonizzando i lupi e i guerrieri e le figure selvagge a essi associati (gli ulfhednar e i berserkir, quest’ultimi legati all’orso). Questi due gruppi di guerrieri, spesso mescolati o identificati dalle fonti a causa della loro stessa furia, sono i più fedeli a Odino, nella sua versione di Dio della Guerra, cui sono devoti e consacrati nell’anima, al punto da rinunciare alla loro natura umana per ascendere al divino.
Il termine ulfhednar (al singolare: ulfhedinn) è formato dalla radice ulfr (come noto, lupo) e da hedinn, ossia casacca, intesa dalla Isnardi come “corto capo di vestiario senza maniche con cappuccio di pelle”. Una rappresentazione la troviamo in una piastra di bronzo, che probabilmente decorava un elmo, rinvenuta a Torslunda in Oland (Svezia), risalente al V-VI secolo, dove è raffigurato un guerriero con un corpo umano su cui è innestata una testa di lupo; indossa una pelle di lupi e ha persino una coda sporgente. Le sue armi sono spada e lancia, arma sacra a Odino (possessore della celebre lancia Gungnir).
Piastra di bronzo, probabile decorazione di un elmo, rinvenuta a Torslunda in Oland (Svezia), risalente al V-VI secolo.
L’indossare pelli di lupo non è prerogativa di questi gruppi guerrieri nordici, lo sappiamo. Basta ricordare Aita, Dio etrusco, i druidi, gli Hirpi Sorani o il troiano Dolone che, nell’Iliade, prima di un combattimento indossa la pelle di un lupo canuto, per assumere le caratteristiche dell’animale. Ciò che è singolare, e unico di questi clan, è il livello di convinzione raggiunta, nonché l’efferatezza delle loro azioni.
I guerrieri-lupo combattono infatti senza armatura, invasi da un furore particolare, quasi sacro, che li rende matti come cani o lupi e forti come orsi o tori selvaggi. Al pari dei berserkir, sono riuniti in clan (vere e proprie sette chiuse) e si sottopongono a riti particolari di iniziazione, assumendo sostanze inebrianti e allucinogene che li rendono indifferenti al dolore fisico, sprofondandoli in uno stato di trance da cui escono liberando tutto il loro furore (la berserksgangr).
Hrafnsmal, la ballata del corvo, antica saga del X secolo attribuita a Thorbjǫrn Hornklofi, li descrive così:
Wolf-skinned they are called. In battle
They bear bloody shields.
Red with blood are their spears when they come to fight.
They form a closed group.
(Estratto da “Chronicles of the Vikings”, di R.I.Page, Toronto, Canada: University of Toronto Press, 1999)
Pelli di lupo, guerrieri indemoniati che non rifuggono la guerra, bensì vi si precipitano, ergendosi spalla contro spalla contro i nemici, reggendo scudi insanguinati. Guerrieri quindi innamorati della guerra, che godono del sangue versato nella mischia, travolti da furia incontenibile, convinti di essere davvero l’animale totemico in cui Odino, tramite lo sciamano, li aveva trasformati (il lupo o, nel caso dei berserkir, l’orso). Giova ricordare che il nome norreno di Odino era Wotan (Woden in sassone), dalla radice wut, che significa appunto furia, e che, oltre a essere Dio della Guerra, era un noto mutaforma, come narrato da Snorri Sturluson nella Saga degli Ynglingar.
Le origini di questa classe di guerrieri-belva affondano nei loro antenati germani. Basta leggere un passo del De origine et situ Germanorum di Tacito (libro XLIII):
“Truci di aspetto, accrescono la loro naturale ferocia con l’arte e con la scelta del tempo. Hanno scudi neri, corpi tinti; per combattere scelgono le notti oscure; il solo orrore di questo esercito di fantasmi semina lo spavento, poiché non vi è nemico che sostenga il loro aspetto straordinario e quasi infernale.”
Anche Bonifacio di Magonza (impegnato nella missione di convertire i pagani al cristianesimo) nell’VIII secolo ribadisce che i germani mutavano in lupo indossandone la pelle e una cintura.
Questa rappresentazione richiama quanto descritto nel primo articolo sulle modalità con cui gli uomini di alcune culture si approcciavano agli animali totemici, per acquisirne la forza e le caratteristiche specifiche. Massimo Cantini ci ricorda che “vestendosi con la pelle rituale, si determinava in sostanza un cambiamento radicale del comportamento, che autorizzava gli adepti a vivere secondo regole del tutto in antitesi con quelle del gruppo civile. La pelle indossata dal combattente era così un modo per trasformarsi in fiera, per acquistare, in virtù delle potenzialità magiche, l’energia bestiale dell’animale incarnato”.
Il passaggio dalla “Germania” alle terre nordiche è naturale, come la commistione a tradizioni sciamaniche di provenienza finnica. Giovanni Pagogna (autore del fantasy “Il trono delle ombre”) in un interessante articolo analizza la società finnica “ancora fortemente tribalizzata e legata alla natura da un rapporto simbiotico, dato che le difficili condizioni della loro terra ostacolavano l’agricoltura e spingevano a uno stile di vita basato su pastorizia nomade di renne e caccia, raccolta e baratto”, per cui gli sciamani “credevano infatti di potersi trasformare in orsi, lupi, renne o pesci, similmente a ciò che tramandano alcune saghe sui primi berserkir e ulfhednar, che combattevano sotto le sembianze del loro animale sacro”.
Ecco quindi l’istituzione di questi clan di guerrieri-belva, probabilmente persone che soffrivano di pesanti squilibri mentali, amplificati dagli sciamani tramite riti di iniziazione che potevano essere anche veri addestramenti militari. Luca Barbieri li descrive in maniera approfondita nel suo saggio, ponendo l’attenzione sulle modalità di mutamento (quello che, in norreno, è definito hamrammar) dell’hamrammr, ossia di colui che non ha una sola forma, ma può mutarla. Di certo l’iniziato doveva assumere una grande quantità di birra, mescolata a un preparato a base di Amanita muscaria, fungo allucinogeno, e di digitale, generando un beverone energetico le cui origini risalgono alla soma indiana. Grazie a questo, il guerriero veniva invaso da una furia irrefrenabile, perdendo ogni raziocinio, incapace di distinguere tra amici e nemici, incapace persino di comunicare con parole, limitandosi a urlare e ululare. La berserksgangr lo rendeva insensibile alle ferite, portandolo ad azzannare scudi, a prendere tra le fauci carboni ardenti e a gettarsi in battaglia senza temere né il ferro né il fuoco (nella Saga di Vatnsdal i berserkir camminano sul fuoco a piedi nudi!). Uno “spirito di follia” che, come lo descrive Sassone il Grammatico, non può essere arrestato “se non con il sacrificio di una strage umana”.
Storia dei licantropi, Luca Barbieri, Odoya, 2011.
Ovviamente la berserksgangr aumenta anche la forza del guerriero, al punto che a volte gli ulfhednar e i berserkir vengono descritti come giganti, come dei troll, nelle saghe. Tutti elementi che poi hanno contribuito al diffondersi della successiva mitologia “licantropica”.
Al termine dello scontro, esaurita la carica adrenalinica, il guerriero era travolto da una spossatezza improvvisa, costretto ad accasciarsi in mezzo al campo di battaglia. Qualcuno soffriva di amnesia, dimenticando quindi la strage appena compiuta, altri invece morivano d’infarto per l’eccezionale sforzo sostenuto. Dopo i fasti della guerra, subentrava la disabilità.
What people say about shape-changers or those who go into berserk fits is this: that as long as they’re in the frenzy they’re so strong that nothing is too much for them, but as soon as they’re out of it they become much weaker than normal. That’s how it was with Kveldulfr; as soon as the frenzy left him he felt so worn out by the battle he’d been fighting, and grew so weak as a result of it all that he had to take to his bed.
(Dalla Saga di Egill Skallagrimsson)
Questo sacro furore i romani lo battezzarono furor teutonicus e lo disprezzavano, in quanto la furia era opposta alla gravitas, l’insieme dei loro valori di disciplina, controllo di sé e impeccabilità. La furia rendeva gli uomini delle bestie, azzerando la loro dignità e sprofondandoli verso gli istinti più primordiali e incontrollati (quanto? dipendeva dalle capacità dello sciamano di istillare tale convinzione nella mente degli iniziati). All’inizio questi clan erano guardati con ammirazione, quasi fossero i depositari della sapienza guerriera e del furore divino, poi con l’avvento del Cristianesimo le genti del nord mutarono il loro atteggiamento verso i “consacrati a Odino”, che vennero etichettati come pazzi indemoniati, malati di mente o addirittura servi del demonio.
La battaglia di Teutoburgo, tra le forze unite dei germani e i romani, rappresentata da Paja Jovanović (1883, circa).
La crociata contro il paganesimo spinse gli appartenenti ai clan degli uomini-belva a isolarsi, cacciati dalle comunità di origine e forzati a rifugiarsi in ambienti solitari e ostili, come fitte foreste o caverne, dove potevano dare libero sfogo alla berserksgangr. Da qua sarebbero nati i racconti e le leggende, narrati dai viandanti e dai pellegrini, su branchi di feroci uomini-lupo che abitavano le foreste del nord, le antesignane delle leggende sui licantropi e sui “lupi cattivi”.
Nasce anche il collegamento tra lupo e uomo malvagio, quello che viene considerato il reietto, l’espulso dalla società, destinato a vagare come un animale. Wargus, in latino medievale, prese a indicare il lupo, un suono simile ai termini con cui venivano chiamati coloro che, per delitti comuni, venivano allontanati e esiliati dalle comunità, i malfattori o fuorilegge: warag, in sassone, vargr, in norreno, warc in tedesco. Il termine andò ad affiancarsi al tradizione ulfr, in norreno.
Nella già citata Saga dei Voslunghi, Sigi si macchia di un delitto disonorevole e viene definito “vargr i verum”, ossia “lupo nei luoghi sacri”, nemico di uomini e Dei. La Isnardi ci ricorda il caso del vargtré, l’albero del lupo, che è quello a cui “venivano impiccati i malfattori o quello su cui accanto alla forca di un condannato veniva impiccato un lupo”.
Bibliografia parziale:
Egils saga: http://www.sagadb.org/egils_saga.en
Giovanni Pagogna: https://dietroaltrono.wordpress.com/tag/ulfhednar/
Hrafnsmal (La ballata del corvo): http://www.koshabq.org/2014/06/28/hrafnsmal/#more-430
I miti nordici, Gianna Chiesa Isnardi, Longanesi, 1977.
Il diavolo, gli eretici e i lupi, di Massimo Cantini.
Miti e leggende nordiche, Salvatore Tufano, Newton Compton Editori, 2005.
Saga degli Ynglingar, di Snorri Sturluson: http://omacl.org/Heimskringla/ynglinga.html
Saga dei Voslunghi: http://omacl.org/Volsunga/
Storia dei licantropi, Luca Barbieri, Odoya, 2011.
Storia dei popoli settentrionali, di Olao Magno: http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k59167q/f448.image
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