Una critica che spesso si porta ai giovani autori di fantasy, soprattutto se esordienti, è quella di ispirarsi in modo troppo evidente ai giochi di ruolo che di questo genere hanno fatto il proprio punto forte. Giochi come Dungeons & Dragons, Pathfinder e simili hanno influenzato il fantasy sotto ogni punto di vista, andando a propria volta a “depredare” i romanzi celebri.
Criticare un autore perché il suo stile e la sua ambientazione ricordano troppo da vicino questi giochi può essere giusto, ma in linea teorica può anche essere sbagliato. In realtà tutto sta nel capire quanto l’interessato abbia attinto davvero da certi sistemi. Un simile discorso ritengo sia molto utile per un aspirante autore, poiché egli potrà andare a prevenire in partenza eventuali errori.
Partiamo da un concetto molto semplice che a mio parere è condivisibile sotto ogni punto di vista. Se nella propria vita si è conosciuto il fantasy soltanto sotto il profilo dei gdr è molto avventato lanciarsi nella scrittura di un libro. Giocare a D&D, anche come Master, è molto diverso dal narrare una storia con il solo ausilio della pagina bianca e di una penna. Al contempo, a mio modesto parere, fare il Master è uno degli esercizi letterari più interessanti. Lo consiglio a chiunque voglia imparare a scrivere, poiché partendo dalla trama concepita in partenza si dovranno prendere per forza scelte improvvise in base alle decisioni dei personaggi giocanti. Un buon Master è colui che riesce a mantenere viva l’attenzione anche quando la trama devia totalmente dalle sue previsioni. In questa attività si ha poi l’incredibile opportunità di scoprire in diretta quali generi di avvenimenti stupiscono il pubblico (i giocatori, in questo caso) e si comprende anche quanto ogni persona reagisca a proprio modo. Ritengo perciò utile esercitarsi come Master, ma ciò non può essere l’unico punto di partenza della scrittura di un romanzo. Se non ci si chiama Steven Erikson, non si può passare dal proprio gioco di ruolo direttamente al proprio libro.
Un problema che a volte emerge quando l’autore è troppo legato alla propria esperienza di giocatore si rintraccia nell’eccessivo uso di meccaniche fredde, che vanno a delineare gli avvenimenti in modo quasi robotico. In un’ambientazione fantasy che vuole risultare realistica non possiamo inserire il “guerriero”, il “ladro” e il “mago” andando continuamente a riferirci a questi personaggi con la loro qualifica. Nella realtà ogni persona sa fare una serie di cose, ma non per questo è definita completamente dal proprio “mestiere”. Un altro errore può essere quello di descrivere i combattimenti con un’evidente ideologia da gioco da tavolo, con atti sequenziali e logici, come se appunto la battaglia si svolgesse a turni. Uno scontro reale invece è una baraonda in cui è difficile discernere i colpi singoli o le tattiche evidenti.
Sulla magia ritengo invece necessario fare un discorso a parte. È vero che non bisogna creare un funzionamento degli incantesimi chiaramente ispirato ai giochi di ruolo, con magie sempre limitate e dall’effetto meccanico e fisso, ma al contempo non bisogna neanche confondere il desiderio legittimo di creare una magia funzionante e definita con la logica dei giochi. Molti romanzi fantasy lasciano gli incantesimi in un limbo indefinito, dove i maghi all’occasione fanno quello che vogliono come vogliono, ma altrettanti fantasy pongono invece limiti chiari e vanno a definire la magia in modo netto, così da permettere al lettore di comprenderla in modo migliore, come se fosse un elemento logico dell’universo a cui appartiene.
Un altro punto su cui è sempre difficile giudicare è anche la presenza di creature e razze più o meno “classiche”. Non appena il lettore “maldisposto” trova nomi come Rakshasa, Lich e Revenant, corre ad accusare l’autore di aver sfruttato in modo evidente il bestiario di D&D. Anche in questo caso però bisogna fare le dovute riflessioni. Le creature citate e quasi tutte le altre presenti nei giochi di ruolo sono sempre prese da tradizioni, mitologie o da celebri romanzi fantasy, pertanto nessuno di questi mostri può essere dichiarato un membro esclusivo dei giochi di ruolo. Il Rakshasa, per fare un solo esempio, è un demone della mitologia induista, perciò ha diritto di entrare in un fantasy tanto quanto un Drago occidentale. Il vero giudizio occorre farlo piuttosto sulle conoscenze reali dell’autore ed è bene chiedersi: mi si sta mostrando un Rakshasa rivisitato dalla fantasia dello scrittore, oppure un classico Rakshasa di D&D?
Per concludere, ritengo che sia sempre avventato accusare gli autori di essersi ispirati ai giochi di ruolo fantasy, poiché questi sono una fonte legittima pari a qualsiasi romanzo, inoltre si fondano sempre su creature, idee e mitologie preesistenti. L’importante, ancora una volta, è invece la capacità di scrittura dell’autore. Se il romanzo è piacevole e divertente, poco importa che sia stato ispirato da una giocata di ruolo, mentre se esso è la narrazione stentata di una partita di un gdr, non occorrerà neanche una gran cultura per capire che lo scrittore non ha ancora le carte in regola per definirsi tale.
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