L’Italia è, da sempre, terra ricca di arte e di leggende, diverse da regione a regione, anche in virtù dei numerosi secoli in cui le singole aree della penisola hanno costituito realtà politiche autonome e separate dalle altre, piccoli mondi in cui miti più generici sono stati rielaborati e caratterizzati in maniera univoca, a volte assegnando anche, alla stessa figura leggendaria, un nome differente.
Iniziamo dalle basi. Il termine “Lupo mannaro” deriva dal latino popolare hominarius (da homo, uomo), quindi è un lupo umano, ossia un uomo che diventa lupo, e proprio questa umanità sembra un tratto caratteristico del licantropo nostrano, differenziandolo da ben più agguerriti licantropi nordici o tedeschi. Anche i nomi cambiano, da regione a regione. Ne vedremo alcuni casi, spostandoci da nord verso sud (dove sono molto abbondanti, mescolati a tradizioni popolari), in una casistica che non può essere esaustiva, sia per non dilungarci troppo sia perché molte leggende venivano tramandante oralmente e possono essere potenzialmente andate perdute.
Valle d’Aosta: Jean Jacques Abraham Christillin, in Leggende e racconti della Valle del Lys, racconta la storia di un uomo, detto “der Ronker”, che d’estate andava con la figlia alla baita di Skerpie, nel vallone di Valdobbia, conducendo le mucche al pascolo. Purtroppo però un grosso lupo iniziò a gironzolare attorno alla baita, lanciando terribili ululati e dimostrando una notevole forza fisica, tanto da ferire il cane dell’uomo ogni volta che glielo aizzava contro. Neppure i colpi di moschetto parevano ferirlo. Un triste giorno, la figlia del montanaro, rimasta sola alla baita, venne aggredita dal lupo che le strappò i seni, lasciandola agonizzante in un lago di sangue; quando il padre tornò, era ormai troppo tardi e la giovane morì. Anni dopo, l’uomo, sempre accompagnato dal suo fido cane, giunse in una locanda in Germania dove scoprì che proprio il locandiere era il lupo che aveva ucciso la figlia. Maledetto da due streghe, era stato mutato in bestia e costretto a nutrirsi di carne viva; solo divorando i seni di una ragazza avrebbe potuto riacquistare forma umana. Una leggenda “classica”, di trasformazione indotta da un maleficio.
Piemonte: riferimenti al licantropo ci sono nella zona di Cuneo (Val di Pesio), dove viene chiamato “Luv ravas”, un grosso uomo che diventa un famelico lupo, dove “luv” è la forma dialettale di lupo e “ravas” riprende il latino “rapax”, ossia rapace. Nel Dizionario piemontese, italiano, latino e francese, di Casimiro Zalli, il “luv ravas” viene definito un feroce quadrupede di pelo fulvo, che urla come il lupo ma è diverso nel rimanente. “Assale i corvi e gli animali più piccoli e li persegue sugli alberi per succhiarne il sangue e mangiarne il cervello.”
Dizionario piemontese, italiano, latino e francese, di Casimiro Zalli.
Nelle Valli Valdesi (in provincia di Torino) il licantropo è noto come loup ravart (molto alta l’influenza francese), termine che corrisponde al loup garorun, che deriva dall’agglutinazione tra parole a contatto, “loup” e “garoun” (dal francese loup garou, lupo mannaro). Il Dizionario del dialetto valdese della val Germanasca lo descrive come una “bestia immaginaria di aspetto lupesco, che rapisce e divora. Serviva da spauracchio nei racconti che si facevano durante le lunghe veglie invernali del passato”. Corre per la campagna e, se trova uomini più bassi di lui (li misura mettendogli le zampe pelose sulle spalle), li assale. Anche i preti, nelle fantasie dei valdesi, possono diventare lupi mannari, per compiere le loro vendette religiose (non dimentichiamo le persecuzioni cui i valdesi sono andati incontro dal Medioevo fino alla fine del XVII secolo).
Marie Bonnet, in Tradizioni orali delle Valli Valdesi del Piemonte, racconta di due ragazzi che, falciando un prato, trovano una pelle di lupo nascosta dietro un cespuglio. La esaminano con cura e poi il più giovane decide di indossarla, per quanto il compagno gli dica che è maledetta. Senza dargli ascolto, il ragazzo la indossa, iniziando a gridare, travolto da un desiderio violento di mordere e strappare coi denti carne umana (una leggenda non originale; qualcosa di simile, infatti, era accaduto anche a Sinfjotli e al padre Sigmund nella Saga dei Voslunghi).
Friuli: Luca Barbieri, nel già citato saggio Storia dei Licantropi, precisa che il licantropo friulano è benevolo, giungendo in aiuto dei contadini per combattere le streghe.
Lombardia: non abbiamo leggende lombarde sui licantropi, ma due parole vanno spese riguardo alla famosa “fiera bestia” del milanese, una leggenda costruita su basi storiche (ripresa, tra l’altro, da Luca Tarenzi nel romanzo urban fantasy “Le due lune”, Alacran Edizioni). Presso la biblioteca Braidense è possibile consultare un opuscolo dal titolo “Giornale circostanziato di quanto ha fatto la Bestia feroce nell’Alto Milanese dai primi di luglio del 1792 sino al giorno 18 settembre”, una cronaca interessante di un feroce animale che nell’estate di quell’anno disseminò il panico nella città di Milano, aggredendo e uccidendo numerose vittime, soprattutto bambini. Nonostante la caccia continua, la taglia sulla sua testa e l’impegno costante delle autorità, la bestia colpevole non venne mai individuata e certi atteggiamenti rendevano difficile accostarla a un lupo, soprattutto le descrizioni (forse esagerate o romanzate?) sulla sua forza, taglia e perfida astuzia, al punto che molti superstiziosi temettero trattarsi di una creatura demoniaca. Un uomo-lupo magari? Il mistero permane in quanto le cronache si interrompono bruscamente e non conosciamo la fine della vicenda.
Le due lune, di Luca Tarenzi, Alacran Edizioni
Emilia Romagna: l’unica indicazione viene dalle Cronache Forlivesi di Leone Cobelli (pittore e storico italiano vissuto nel XV secolo) in cui descrive un grande “lupo minaro” nel territorio di Forlì nel 1437, un pericolo così opprimente da spingere a sospendere l’appena decretato divieto di portare armi.
In Toscana la leggenda più celebre è quella del lupomanaio di Pontremoli, a cui il poeta Luigi Poletti ha dedicato un componimento dialettale in versi, comparso nel 1906 sulle pagine del periodico Apua giovane: “Al lupomanaio”, facilmente reperibile in rete.
La cittadina della Lunigiana pare sia infestata da un lupo mannaro, che risiederebbe nell’antico borgo del Piagnaro (vicino al castello, appunto, del Piagnaro) e che nelle notti di luna piena uscirebbe per far udire il proprio terrificante ululato. Per questo le mamme mettono in guardia i figli di non uscire le sere del plenilunio ma, qualora incontrassero il lupomanaio, dovrebbero 1) ignorare la sua presenza, restando in silenzio e senza guardarlo negli occhi, di modo da non riconoscerlo e quindi di non poterlo denunciare ai propri concittadini (la più grande paura del licantropo era infatti essere riconosciuto), 2) salire di corsa su per le scale, in quanto la creatura non potrebbe seguirli per più di tre gradini, e 3) procurarsi un gallo, detestato e temuto dal lupomanaio, probabilmente perché il suo canto annuncia il sorgere del sole e, quindi, la fine della sua notte di terrore. Qualora volessero guarirlo, dovrebbero forargli la mano con una lesina da calzolaio.
Castello del Piagnaro, a Pontremoli, in Lunigiana (MS).
Lazio: attenzione ai licantropi romani! Pare infatti che, presso i Castelli Romani, i lupi menari non gradiscano essere salvati, provando odio per chi li “salva” al punto da cercare di ucciderli.
Luigi Antonio Zanazzo (Roma, 1870-1911), in “Tradizioni popolari. Usi, costumi e pregiudizi del popolo di Roma”, Roma, 1908, descrive possibili rimedi “simpatichi” a casi di licantropia: ferirlo in fronte e fargli uscire qualche goccia di sangue (rimedio che lo farebbe guarire subito); oppure salire almeno quattro o cinque scalini, dato che il lupo menaro non può salirne più di due, massimo tre. Oppure bisogna mettergli in mano una “chiave femmina”.
Anche nella commedia “Il licantropo volgarmente detto lupo menaro con Pulcinella”, di Francesco De Pretis, 1830, il licantropo è, appunto, chiamato lupo menaro. Viene detto che è simile al lupo, a causa degli ululati, per la maniera di vivere e perché esce di notte, rifuggendo la società e “errando per i luoghi più solitari e remoti”.
Negli anni Cinquanta, Roma conobbe un licantropo in carne e ossa, il lupo mannaro di Villa Borghese ossia Pasquale Rossi, un ragazzo che soffriva di violente crisi che gli infondevano una grande forza e una smania incontrollabile, il desiderio di correre sull’erba e morderla.
Abruzzo: qualche leggenda sui lupi mannari arriva dall’Abruzzo. Domenico Priore riferisce che il lupo mannaro è un uomo-lupo, ossia una semplice allucinazione per cui un uomo sia convinto di essere un lupo e spinto a vagare urlando nella notte finché non trova dell’acqua, in cui può tuffarsi e tornare uomo. Per questo motivo il posseduto, o i suoi familiari, devono conservare un secchio d’acqua vicino alla porta di casa, per permettergli di bagnarsi e ritrovare la forma umana (o la convinzione di essere tornato uomo).
Sempre in Abruzzo, Gennaro Finnamore mette in guardia dai nati durante la notte di Natale: se sono femmine saranno streghe, se sono maschi diverranno lupi mannari (lopemanari). Per evitarlo, il padre ha una sola possibilità: per tre notti di Natale consecutive deve marchiare il piede del figlio con un ferro rovente, facendoci una piccola croce, altrimenti, raggiunti i vent’anni, la maledizione si attiva e i figli diventano licantropi (o streghe, se femmine). Questa condizione comunque non è eterna, in quanto potranno tornare umani quando qualcuno, ferendoli, farà perdere loro del sangue, cosa non semplice però dato che il licantropo a mezzanotte diventa un lupo feroce e se ne va in giro ringhiando, ululando e rotolandosi in terra. Un modo per sconfiggerlo è ricordarsi che non può salire le scale, oppure colpirlo dall’alto, magari da una finestra di un piano superiore, facendogli cadere in testa qualcosa che, ferendolo, lo renda libero. Lu lope menare, secondo Finnamore, “nella notte di Natale va in giro urlando, specialmente se arriva a un crocicchio, capecròce, dove si suole attaccare le crocine di cera nella processione dell’Ascensione.”
Questa particolare scelta temporale (nascita nella notte di Natale), tipica delle leggende dell’Italia Meridionale, ci viene spiegata nel saggio di Cesare Bermani sulla stregoneria popolare: “nascere in quei giorni significa compiere involontario atto desacralizzante in rapporto alla nascita di Cristo o alla particolare natura di vigilia che [essi] rivestono”. Nella sua ricerca nel comune di Castellalto (TE), sempre Bermani ci informa che in quella zona “le crisi del lupo mannaro possono avvenire soltanto nelle notti di mercoledì e venerdì”. Quando il licantropo torna a casa, deve bussare tre volte, affinché la moglie gli apra, segno convenzionale che stabilisce (o, quantomeno, dovrebbe stabilire) una ripresa di coscienza da parte dell’uomo. Se così non avviene o se la moglie, incautamente, apre prima del terzo battito alla porta, le conseguenze potrebbero essere terribili, per lei.
Anche la pittrice Estella Canziani, dopo aver a lungo viaggiato per l’Italia, scrive di lupi mannari in Abruzzo, in Attraverso gli Appennini e le terre degli Abruzzi. A causa di una cattiva stella (ossia una sbagliata data di nascita, la notte di Natale), alcune persone sono destinate a diventare lupi minari, una condizione che loro stessi sentono e per cui possono prepararsi, radunando tutto il bestiame in una stalla e chiudendocelo, in modo da non danneggiarlo. Poi versano acqua nella polvere e si rotolano nella fanghiglia, trasformandosi in licantropi, con gli occhi rossi di sangue e le mascelle spalancate e avide, e ululando selvaggiamente, fino al passare della notte.
Attraverso gli Appennini e le terre degli Abruzzi, di Estella Canziani.
Compare, nello scritto della Canziani, una caratteristica tipicamente italiana dei licantropi, ossia una certa umanità, un tentativo di contrastare, con piccoli gesti, la bestialità dirompente del lupo, che si manifesta, appunto, nel rinchiudere le bestie nella stalla o nell’invitare un amico ad allontanarsi prima della trasformazione, consigliandolo di rifugiarsi in alto (in cima a un fienile ad esempio), in quanto consapevoli di non poterlo raggiungere, dato che il licantropo non può salire più di tre scalini.
Come accaduto di frequente, il Cristianesimo ha cercato di integrare il proprio messaggio nelle preesistenti tradizioni pagane, piuttosto che cancellarle nettamente, rischiando di inimicarsi il popolo. Un esempio viene dal miracolo di San Domenico a Cocullo (in Abruzzo), che riuscì a recuperare un neonato rapito da un lupo, riportandolo dalla madre addolorata e rendendo mansueto il feroce animale. Ecco quindi il santo cristiano che vince sull’animale totemico della regione, il lupo, appunto, sottomettendolo alla nuova religione cristiana.
Una leggenda simile viene dalla zona dell’Aquila ed è relativa a San Raniero (vescovo dell’Aquila) che, come San Domenico, riporta alla madre un bambino rapito da un lupo mannaro, semplicemente facendo pochi tocchi alla campana.
Campania: Il più famoso caso di licantropia di Napoli è quello di Iolanda Pascucci, definita dai giornali “la lupa di Posillipo”. Nata a Roma nel 1921, la giovane fu toccata dalla licantropia all’età di 12 anni, dichiarando che nelle notti di luna piena avvertiva una sensazione strana, che le portava la bava alla bocca, le dilatava gli occhi, travolta da un fuoco interiore che, per quanta acqua bevesse, non riusciva a spegnere. Col passare del tempo, sembrò che queste crisi diminuissero e la donna convolò a nozze con un musicista, ignaro delle sue turbe, con cui ebbe due figli. In seguito, le crisi ricominciarono e Iolanda la notte scappava di casa, per non ferire la propria famiglia, ritornandovi all’alba, un comportamento che si fece sempre più frequente e al tempo stesso insostenibile, finché non decise di fuggire via. Si nascose a Napoli, sperando che il mare potesse placare la sua sete demoniaca, ma non accadde. Fu fermata dalla polizia, mandata all’Ospedale degli Incurabili dove la legarono in attesa della crisi. Riuscì a evadere e scomparve, dando vita alla leggenda della “lupa di Posillipo”.
Pare inoltre che, nella zona di Agnano, durante la Seconda Guerra Mondiale, un licantropo si aggirasse nelle notti del plenilunio. I suoi ululati, spesso all’unisono con le sirene, annunciavano l’arrivo degli aerei alleati.
Nell’Irpinia i lupi mannari sono noti come lupenari, pompanari o pampanari. Secondo le tradizioni locali, la licantropia sopraggiunge a dicembre, in particolari nelle notti di luna piena che precedono il Natale, costringendo gli uomini che ne soffrono a vagare per le campagne nudi e coperti solo di peli e foglie (in dialetto “le pampane”, da qui il nome).
Nota etimologica: il termine Irpinia deriva dagli Irpini (tribù dei Sanniti di età pre-romana), che si diedero questo nome in onore al loro animale totem, ossia il lupo, chiamato Hirpus in lingua osca.
Un esemplare di lupo appenninico
Puglia: il licantropo è noto come lupom’n. Nella zona di Cassano Murge (Bari) viene ripresa la tradizione per cui diventa lupomine chi è nato la notte di Natale.
Una significativa variante la incontriamo a Salve (in Salento) dove i lupi mannari vengono chiamati lupu sularu (come variante di lupi mannaru). La fonte è il Vocabolario dei Dialetti Salentini di Gerard Rohlfs. Tale termine fa pensare a un uomo che si trasforma in lupo non durante la notte, bensì durante il giorno. Ci sono discussioni in corso sulla validità del termine sularu usato da Rohlfs, ma, prendendolo per buono (cosa rimarcata dal suo indicare nello zenith il momento di trasformazione dell’uomo, anziché nel nadir), dobbiamo ricercarne le origini nella storia del lupo che, nella cultura greca, era considerato un simbolo solare.
Nell’articolo sui Licantropi nell’Antichità Classica abbiamo citato Apollo Lykeios, che deriva dal greco λύκος lýkos (ossia lupo) ma che ingloba anche la radice proto-greca λύκη, ossia “luce“; il riferimento è alle origini di Apollo, figlio di Leto, Divinità protettrice della regione turca della Licia, dove pare il Dio sia nato, e dall’aspetto di lupo in cui Leto si mutò quando partorì. Il lupo, pur demonizzato, conserva quindi una doppia natura, non solo infernale ma anche solare. Paolo Vincenti, nel suo saggio, ci ricorda che secondo la cultura popolare i momenti in cui i licantropi attaccavano i villaggi erano le ricorrenze di San Giovanni e Santa Lucia, il solstizio d’estate e, prima della riforma del calendario, il solstizio d’inverno, momenti di passaggio da una stagione all’altra.
L’importanza del lupo trasuda anche dalla toponomastica: Lupiae è l’antico nome della città di Lecce (da lupia, ossia lupa), mentre Luppiòti, da Luppìu, era il nome degli abitanti della città.
Claudio Foti sostiene che a Brindisi fossero presenti numerosi licantropi dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Addirittura li descrive fisicamente:
“gli uomini avevano i tratti del viso molto marcati, il corpo avvolto da una peluria insistente e folta, le mani grandi dalle dita robuste con le unghie nere o marroni. Caratterialmente riservati, solitari e intelligenti. Gli anziani sostengono che tutti li conoscessero e che in molti sospettassero cosa fossero in realtà, ma visto che non avevano mai nuociuto a nessuno tutti gli abitanti se ne tenevano lontani e non li stuzzicavano. Chi abitava nelle campagne vicino alla città racconta degli ululati che si sollevavano nelle notti di luna piena ma che non c’era mai stata paura, perché, a differenza degli episodi letterari, i licantropi riconoscevano gli abitanti e cercavano di non nuocere loro. Alcune tradizioni orali proprie del brindisino li considerano dei veri e propri protettori.”
Basilicata: qua il licantropo è noto come lupumanare e, lo diventa, chi nasce la notte di Natale.
Da notare la toponomastica: l’antica Lucania (corrispondente a buona parte dell’odierna Basilicata) deriva il nome dalla popolazione di origine osca che la abitò, i Lucani, appunto. Questo termine, secondo alcuni, potrebbe derivare dal latino lucus (bosco sacro) o dal noto λυκος, in greco: lupo.
A Stigliano (Provincia di Matera) c’è una leggenda sui licantropi, disponibili anche sul sito web del comune, che definisce i mannari come “pmpnar”:
“sono degli uomini normali che la leggenda vuole nati nella notte di Natale, a mezzanotte in punto. Nelle notti di plenilunio diventano simili a lupi e terrorizzano interi paesi, vittime di oscuri sortilegi che si possono guarire solo con uno stratagemma: pungere con uno spillo il lupo mannaro. Il sangue perduto permette all’uomo di ritornare alla normalità.”
Anche Carlo Levi parla di licantropi in Lucania in “Cristo si è fermato a Eboli”:
“i sonnambuli diventano lupi, licantropi, dove non si distingue più l’uomo dalla belva. […] Escono la notte, – mi raccontava Giulia, – e sono ancora uomini, ma poi diventano lupi e si radunano tutti insieme, con i veri lupi, attorno alla fontana. Bisogna star molto attenti quando ritornano a casa. Quando battono all’uscio la prima volta, la loro moglie non deve aprire. Se aprisse vedrebbe il marito ancora tutto lupo, e quello la divorerebbe, e fuggirebbe per sempre nel bosco. Quando battono per la seconda volta, ancora la donna non deve aprire: lo vedrebbe con il corpo fatto già di uomo, ma con la testa di lupo. Soltanto quando battono all’uscio per la terza volta, si aprirà: perché allora si sono del tutto trasformati, ed è scomparso il lupo e riapparso l’uomo di prima. Non bisogna mai aprire la porta prima che abbiano perso anche lo sguardo feroce del lupo. e ancha la memoria di essere state bestie. Poi, quelli non si ricordano più di nulla”.
Come noto, Levi descrive i costumi di Aliano (MT), ove trascorse il suo periodo di confino, ma sono simili a quelli di Castellalto (TE), descritti dal Bermani.
Secondo Volpe, a Tricarico e a Grassano (MT) esiste un altro modo per evitare che la moglie venga divorata dal marito affetto dalla licantropia: “per non essere sbranata dal lupementale, deve lanciargli quattro etti di carne”.
Calabria: qua i lupi mannari sono chiamati lupu pampanu o marcalupu, sgozzano pecore e capre senza divorarle, solo perché amano il sangue caldo. Sono detti anche lupi minariu e così sono citati in un racconto popolare calabrese, noto come “la prima notte di nozze”: presso San Giorgio Morgeto (RC), una ragazza aveva sposato un uomo, senza sapere che fosse un lupo. Durante la prima notte di nozze, comprendendo che stava per avere una crisi, l’uomo si allontanò, dicendo alla moglie di non venirlo a cercare, ma lei lo seguì ugualmente, trovandolo in piena crisi e venendo sbranata. Quando rinvenne, dal dispiacere per la sua morte, si uccise anch’egli.
Bermani ci ricorda che a Catanzaro si riteneva che il licantropo girasse accompagnato da cani:
“Anche a Satriano (Catanzaro) si riteneva […] che il lupo fosse seguito da cani: […] A volte di notte, dentro la casa, fuori si sentivano degli ululati, però c’erano cani, si sentivano cani abbaiare, ma non uno, dieci o venti cani. E di solito si pensa che quando c’è sto lupo manaro è contornato da venti o trenta cani che gli stanno dietro.”
In “Storia e Folklore calabrese”, Domenico Caruso cita interessanti esempi locali:
“a S. Martino di Taurianova (RC) si consigliava di pungere con una canna appuntita, da un posto sicuro (possibilmente dall’alto), il licantropo che, alla prima perdita di sangue, faceva ritorno alla dimensione umana. In altre località della Piana di Gioia Tauro, il lupo mannaro, appena uscito di casa, custodiva gli abiti in un posto segreto per scorrazzare nei campi e alla periferia del paese. Prima dell’alba, poi, riprendeva i vestiti e raspava alla sua porta, ma soltanto al terzo tentativo i familiari potevano aprirgli. Anzi, in qualche abitazione si praticava un foro nell’uscio per essere certi dell’avvenuta trasformazione del proprio congiunto da lupo a uomo. Il segno di croce incuteva paura al licantropo che evitava, perciò, di attraversare ogni quadrivio. Lo stesso motivo induceva i nostri antenati a tracciare a Natale con dei carboni accesi, per tre notti consecutive, una croce sotto la pianta dei piedi dei piccoli affinché venisse loro scongiurato da grandi l’eventuale grave disturbo.”
Non possono mancare le vicende di santi che compiono miracoli. Qua abbiamo San Martino che, una notte, ferma un giovane che aveva la sfortuna di diventare lupo mannaro da mezzanotte all’alba, vagando per il paese e la campagna, spaventando tutti. Il santo gli fa tre segni della croce, intimandolo di uscire dal corpo del cristiano. Dopo le sue parole, un terremoto scuote la terra e il demonio esce dal corpo del ragazzo, la cui anima innocente è adesso salva.
Concludiamo con l’assolata Sicilia. Come dichiara Giuseppe Pitrè “la credenza del lupo mannaro è comunissima in Sicilia, e non v’è città o paesello che non parli di quest’essere soprannaturale e quasi misterioso”, al punto che è impossibile proporre tutte le leggende.
“Secondo i vari luoghi e dialetti esso è chiamato lupunàru, lupunàriu, lupuminàru, lupuminariù (Messina), lupupunàru (Francofonte), lupupinàru (Naso), lupucumunàriu (Piazza), lupitiminàriu (Nicosia), daminàr (S. Fratello).”
A Messina diventa lupinariu solo chi è predisposto, ossia solo i maschi concepiti durante la luna nuova; se poi il concepimento è avvenuto durante un venerdì d’estate le probabilità aumentano. Anche qua chi nasce a San Giovanni è suscettibile di diventare un lupo mannaro. Marco Boncoddo in un articolo su Messina.Sicilians ricorda che “nei rioni marinari della riviera nord, si tramandava che la luna poteva diffondere la malattia anche quando ci si addormentava con il viso rivolto verso di lei. Ecco perché le donne dei pescatori munivano i mariti di pezzi di stoffa nera, da appoggiare sul viso durante le brevi dormite notturne sulle barche.”
La trasformazione inizierebbe durante la pubertà, in particolare durante la terza fase lunare, quando il poveretto non riesce più a camminare eretto e avverte dei dolori lancinanti ai muscoli.
“Costretto a camminare carponi per quasi una settimana, al sorgere della luna piena tutto il suo organismo è scosso da tremendi spasmi che lo costringono a rotolarsi per terra ed a emettere versi animaleschi, molto simili agli ululati dei lupi. Dopo questa tremenda crisi, la faccia e le braccia del poveretto si ricoprono di lunghi ed ispidi peli neri, mentre l’iride degli occhi cambia il proprio colore in un rosso acceso. Le unghie ed i denti aumentano di volume fino ad assomigliare a quelli di un animale.”
U lupinariu è costretto poi a vagare per le campagne, cercando zone umide, possibilmente torrenti e rigagnoli dove può alleviare le sue sofferenze, ecco perché il popolino si teneva a distanza dai corsi d’acqua durante le notti di luna piena. Per difendersi, valgono le raccomandazioni notate altre volte: il fuoco, che lo terrorizza, e salire in alto, dato che il licantropo non può alzare gli occhi al cielo o verrebbe travolto dal dolore. È preferibile non ucciderlo, in fondo è solo un poveretto che soffre del mal di luna. Per guarirlo, invece, vi sono due possibilità: fargli una puntura in fronte con un ago da sarta (tipico di quasi tutta la Sicilia) o toccarlo con una chiave mascolina, ossia che non abbia buchi (prerogativa messinese). I licantropi di Chiaromonte e Modica invece non possono essere guariti.
A Messina sono addirittura noti ben tre nomi di licantropi “famosi”: Michele Scalabresi (citato anche da Valerio De Lorenzo in “Messina magica”, Edarc, 1987), un artigiano affabile vissuto poco dopo l’Unità d’Italia che, quando era afflitto dal male, vagava urlando lungo il torrente afferrando chiunque gli capitasse sotto mano; poi Don Liu u ‘mmarutu, vissuto ai primi del Novecento, tra l’attuale via Santa Cecilia e la via Centonze, e infine Gioacchino Cassarà che viveva elle campagne circostanti la zona di Tremestieri, dove quindi avrebbe potuto fare meno danni.
Sardegna: non è stato facile trovare notizie su licantropi sardi, considerando l’assenza dei lupi sull’isola, l’unica individuata è di probabile importazione.
Nella zona di Alghero, il licantropo si chiama Lu Prubunaru, esce nelle notti di luna piena ululando e si dice che sia un uomo malato che cammina curvo a causa di forti dolori che provava durante il plenilunio.
Erchitu o Boe Muliache.
Per il resto, in Sardegna è diffusa la leggenda, invece dell’Erchitu (Boe Muliache), un uomo che ha commesso una grave colpa, a causa di un sortilegio si trasforma nelle notti di luna piena, non in lupo, bensì in un grosso bue bianco. Ne parla Cimino, poeta bittese dell’Ottocento, in una poesia reperibile online.
Una curiosità finale: “Lupo mannaro” è il titolo di un thriller di Carlo Lucarelli, edito da Einaudi, con protagonista l’imprenditore Velasco, affarista di giorno e serial killer di notte, che sbrana a morsi giovani prostitute sulla Via Emilia.
Bibliografia parziale:
“Rivista delle tradizioni popolari italiane”, I (1893-1894)
Articolo di Claudio Foti: http://www.mondoliberonline.it/vampiri-e-lupi-mannari-italiani/15949/
Attraverso gli Appennini e le terre degli Abruzzi, Estella Canziani, 1928.
Cristo oltre Eboli : religione e magia nella Basilicata di fine millennio, Luigi Volpe, Nardò, Besa, 2004.
Dizionario del dialetto valdese della val Germanasca, di Teofilo G. Pons, Società di Studi Valdesi, 1973.
La Toscana dei Misteri, Luigi Pruneti, Le Lettere, 2004.
Leggende e racconti della Valle del Lys, Jacob J. Christallin, Guindani, 1988.
Lupi Mannari Sardegna: http://algherese-sardo.blogspot.it/2012/02/il-lupo-mannaro.html
Marco Boncoddo http://messina.sicilians.it/2011/04/16/lupi-mannari-in-riva-allo-stretto/
Messina magica, Valerio De Lorenzo, Edarc, 1987.
Salve, sono il lupo cattivo!, di Paolo Vincenti, pubblicato in “Annu Novu Salve Vecchiu”, n.16, Salve 2006: http://www.fondazioneterradotranto.it/2011/09/22/storie-di-lupi-mannari-dallantica-grecia-al-salento-2/
Storia dei Licantropi, Luca Barbieri, Odoya, 2011.
Storia e Folklore calabrese, di Domenico Caruso: http://www.brutium.info/folklore/folklore04.htm
Tradizioni popolari. Usi, costumi e pregiudizi del popolo di Roma, di Luigi Antonio Zanazzo, Roma, 1908.
Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Giuseppe Pitrè, G. Barbera Editore, Firenze, 1952.
Volare al Sabba. Una ricerca sulla stregoneria popolare, Cesare Bermani, Derive Approdi, 2008.
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Per una ricerca linguistica, cercavo i vari corrispettivi dialettali dell’italiano “licantropo” e finalmente li ho trovati!
Grazie!
Vittoria