Gormenghast, ovvero l’agglomerato centrale della costruzione originaria, avrebbe esibito, preso in sé, una
certa qual massiccia corposità architettonica, se fosse stato possibile ignorare il nugolo di abitazioni miserande che pullulavano lungo il circuito esterno delle mura inerpicandosi su per il pendio, semiaddossate le une alle altre, fino alle bicocche più interne che, trattenute dal terrapieno del castello, si puntellavano alle grandi mura aderendovi come patelle a uno scoglio. Questa fredda intimità con la mole incombente della fortezza era concessa alle abitazioni da leggi antichissime. Sui tetti irregolari cadeva, col variare delle stagioni, l’ombra dei contrafforti smangiati dal tempo, delle torrette smozzicate o eccelse e, enorme fra tutte, l’ombra del Torrione delle Selci che, pezzato qua e là di edera nera, sorgeva dai pugni di pietrame nocchiuto come un dito mutilato puntando come una bestemmia verso il cielo. Di notte, i gufi ne facevano una gola sonante; di giorno, la sua ombra nera si allungava muta. Pochissimi erano i contatti tra gli abitatori di questi quartieri esterni e coloro che vivevano dentro le mura, eccezion fatta per il mattino del primo giorno di giugno di ogni anno, quando all’intera popolazione delle abitazioni di fango veniva concesso di entrare nella Corte per esporre le sculture di legno cui avevano lavorato nel corso dell’anno.
La Trilogia di Gormenghast di Mervyn Peake è composta dai romanzi Tito di Gormenghast (Titus Groan, recensione) (1946), Gormenghast (1950) e Via da Gormenghast (Titus Alone, 1959). È una trilogia molto particolare e unica nel suo genere, è stata assimilata al fantasy pur non avendo alcuni elementi che lo caratterizzano, ossia la presenza della magia e di personaggi non appartenenti alla razza umana.
Apriamo questo libro e ci troviamo in un mondo parallelo al nostro. È Gormenghast, un immane castello, che nessuno dei suoi abitatori ha percorso in tutti i suoi anfratti. Un tempo, doveva essere pieno di tinte squillanti: ora è un intreccio di crepe, e le tinte sfumano fra grigio, verde lichene, rosa antico e argento. Vi incontriamo esseri disparati: un nobile melanconico e saturnino, settantaseiesimo conte di Gormenghast, che è il reggitore del luogo; sua moglie, avvolta in una nube di gatti bianchi; la figlia, selvatica e sognante fra giocattoli vecchi, libri e pezze di stoffa; dignitari di cartapecora, dalle gambe di ragno, custodi di un ordine ormai inaridito; orripilanti figuri che sovraintendono alle cucine; giovani acrimoniosi, che covano la rivolta. Ma c’è qualcosa che unisce questi personaggi: il loro corpo e la loro psiche sono una concrezione del castello – così come il castello è una concrezione del loro essere. Nessuna vita è per loro concepibile al di fuori di quei corridoi di pietra, di quei saloni, di quelle torri, di quei solai. La natura non esiste, se non come riflesso del castello, dove la polvere è polline: perché Gormenghast è tutto. La nascita di un erede maschio, Tito di Gormenghast, porterà una minaccia di cambiamento, per il solo fatto di essere qualcosa di nuovo. E qui ha inizio la saga narrata da Peake, un’impresa grandiosa della letteratura fantastica – e insieme un vasto disegno allegorico che traspare dietro l’esuberanza delle immagini.
Tito di Gormenghast, Adelphi, collana Gli Adelphi.
Il reame di Gormenghast ha il suo centro in un agglomerato tirannico con le sembianze di un castello. Qui ogni antica bellezza si è corrotta in cupa fatiscenza: le mura sono sinistre “come banchine di moli”, e le costruzioni si tengono tra loro “come carcasse di navi sfasciate”. E qui, intorno al piccolo Tito, settantasettesimo conte, si muovono la gigantesca contessa Gertrude, la madre, dalle spalle affollate di uccelli e dallo spumoso strascico di gatti bianchi; l’amata sorella Fucsia dai capelli corvini, che col suo abito cremisi infiamma i corridoi grigi; il fanatico custode delle leggi, Barbacane, nano storpio che raggela il sangue con lo schiocco della sua gruccia…
Gormenghast, Adelphi, collana Gli Adelphi.
Quando, alla fine del secondo pannello della trilogia, il giovane Tito, signore di Gormenghast, trova la forza di strapparsi al suo reame, la cui bellezza si è ormai corrotta in cupa fatiscenza, le parole della madre – “Non esiste un altrove. Tutto conduce a Gormenghast” – sembrano richiudersi sulla sua fuga come una pietra tombale. Scoprirà che un altrove esiste, ma che è divorato non meno di Gormenghast dal Male: la città a cui approda è solcata dalle disumane meraviglie del controllo poliziesco – figure con l’elmetto che paiono scivolare sul terreno, sciami di velivoli senza pilota simili a equazioni di metallo, globi dalle viscere colorate quasi umane -, sottomessa a una scienza dispensatrice di morte. E nei cunicoli del Sottofiume vive una immane popolazione di reietti, fuggiaschi, falliti, mendicanti e cospiratori che non vedranno mai più la luce del sole. Scoprirà che al di là della sua nessun’altra realtà è per lui decifrabile, così come la sua è per gli altri inconcepibile: lontano da Gormenghast non c’è che l’ossessione del ricordo, e la follia. Dovrà, sorretto dall’aiuto di pochi – il gigantesco Musotorto, l’amorosa Giuna, i transfughi del Sottofiume Cancrello, Frombolo e Sbrago -, combattere, sfuggire a insidie, sottrarsi a ogni vincolo d’amore, amicizia e riconoscenza per conquistare l’unica verità che conti: “Era come una scheggia di pietra, ma dov’era la montagna dalla quale si era staccata?”.
Via da Gormenghast, Adelphi, collana Gli Adelphi.
Tito de’ Lamenti
Tito (Titus) è il personaggio principale della serie, assume il titolo di settantasettesimo Conte di Gormenghast dopo la morte di suo padre Sepulcrio (Sepulcrave) mentre è ancora un bambino. Crescendo, Tito svilupperà sentimenti ambivalenti verso la sua casata, restando combattuto tra l’orgoglio del suo lignaggio e il desiderio di fuggire dal castello e le sue tradizioni. Finirà per abbandonare Gormenghast – nel terzo libro, dove l’atmosfera vira verso lo steampunk – scoprendo un mondo diverso e lontano dove il castello e i suoi abitanti sono sconosciuti.
Sepulcrio de’ Lamenti
Settantaseiesimo conte di Gormenghast, padre di Tito e marito della contessa Gertrude, Sepulcrio è un uomo malinconico che – come Tito – si sente incatenato dai suoi doveri di signore di Gormenghast, anche se a differenza di suo figlio non si è mai posto domande sulla sua condizione né tantomeno ha mai pensato di sfuggirle. La sua unica via di fuga è la lettura.
La Contessa Gertrude
Settantaseiesima contessa di Gormenghast, moglie di Sepulcrio e madre di Tito, Gertrude ( Countess Gertrude) è un immenso donnone con lunghi capelli rosso intenso che trascorre la maggior parte del suo tempo nelle sue stanze circondata dai suoi amati gatti bianchi e uccelli di ogni tipo. I suoi animali sono l’unica cosa verso cui sembra dimostrare affetto, per il resto si disinteressa quasi completamente della vita del castello. Tuttavia, dopo la morte di suo marito il suo animo cambia, prende consapevolezza del suo ruolo di regnante ed assume il ruolo di leader durante l’allagamento del castello.
Fucsia de’ Lamenti
Fucsia (Fuchsia) è una ragazza impaziente e immatura. In un primo momento non accetta la nascita di suo fratello Tito, ma ben presto finirà per sviluppare un legame profondo con lui. Fucsia matura anche un legame molto stretto, ma di breve durata, con il padre Sepulcrio, che avrà il suo apice durante l’esplodere della sua pazzia a seguito dell’incendio della biblioteca. In età più matura si avvicinerà sentimentalmente a Ferraguzzo, salvo poi scoprire la sua vera natura malvagia.
Ferraguzzo
Ferraguzzo, (Steerpike) è l’antagonista del romanzo, quello che non riconosce e va contro le regole e le tradizioni del castello. Astuto, anzi machiavellico, malvagio e pieno di odio, fin da subito emerge come protagonista insieme al al castello e i suoi rituali insensati.
Steerpike (Ferraguzzo) by JohnPatience
Il mondo creato in Tito di Gormenghast non è né migliore né peggiore del nostro, semplicemente è diverso. Ha assorbito la nostra storia, la nostra cultura, i nostri riti, e lì si è arrestato e rifiuta di muoversi oltre: un mondo che trova in se stesso forza vitale e giustificazione, e in sé si isola. È il mondo di Gormenghast. Titus Groan, primo volume di una trilogia, apparve nel 1946. L’autore, Mervyn Peake, aveva trentacinque anni. Le reazioni dei critici furono assai favorevoli, in alcuni casi addirittura entusiastiche. Le avventure del protagonista e l’elaborazione
del suo mondo proseguirono in Gormenghast (1950) e in Titus Alone (1959) i quali, però, benché ammirevoli, non erano destinati ad avere la stessa risonanza del primo romanzo: il 1946, anno dell’austerità, era quanto mai ben disposto verso i banchetti a base di fantastico. Ma il successo di critica non significò un vasto successo di pubblico. Titus Groan fu idolatrato, ma solo da pochi fedeli. Il nome di Peake viene citato di rado nelle storie del romanzo contemporaneo. Il perché è ovvio. A differenza degli osannati colleghi del dopoguerra, egli non usa le sue storie per investigare temi alla moda – razzismo, conflitti di classe, omosessualità – o per allargare le frontiere di ciò che si ama chiamare coscienza contemporanea; la sua tecnica narrativa, poi, sembra guardare indietro piuttosto che avanti. I suoi romanzi sono alimento per fantasie private, non tappe di un’evoluzione artistica.Le sue opere in prosa non sono di facile classificazione, possiedono la stessa individualità degli scritti di, poniamo, un Peacock o un Lovecraft. Inoltre, Peake è un uomo dai molti talenti: è un ottimo poeta e un disegnatore originalissimo. Come illustratore di libri, ha uno stile inimitabile e imitatissimo. Egli ha un solo pari nella sua padronanza del mezzo letterario e di quello pittorico: Wyndham Lewis. Peake e Lewis non potrebbero essere più dissimili negli scopi che si prefiggono nelle due arti, ma in entrambi il modo di accostarsi alla prosa descrittiva è fortemente indebitato con l’attività grafica. Se i loro libri sembrano lenti, ciò è dovuto all’enorme solidità del loro contenuto visuale, all’indifferenza per la dimensione temporale, compensata da un’ossessione per il tutto pieno. Tito di Gormenghast è aggressivamente tridimensionale: basta un’occhiata alla descrizione di apertura, dove l’espressione «una certa qual massiccia corposità architettonica» condensa già tutto il romanzo. Ma intorno a questa solidità c’è un’altra dimensione, questa volta magica, che rivela il poeta oltreché il pittore: il Torrione delle Selci «pezzato qua e là di edera nera, sorgeva dai pugni di pietrame nocchiuto come un dito mutilato puntando come una bestemmia verso il cielo». L’impressione che se ne ricava a prima vista è di una scrittura ‘gotica‘, ma il termine è inadeguato. Leggendo Tito di Gormenghast abbiamo sì l’impressione di imbatterci, a ogni piè sospinto, in indizi che potrebbero portarci a intravvedere la luce di un genere letterario, ma ogni volta finiamo per dover riconoscere che la pista è falsa. Prendiamo i nomi dei personaggi: tutti starebbero benissimo in un romanzo di Peacock o di Dickens o in un racconto umoristico per bambini. Nomi comici, dunque, ma di una comicità che rifiuta sia la facile risata sia la levità del fantastico: la massiccia corposità architettonica tiene tutto ben ancorato a terra e, a dispetto dei nomi, il lettore deve prendere i personaggi molto sul serio. Né è il caso di pensare a una britannicissima galleria di eccentrici: non uno di essi si discosta da un centro di normalità, appartengono tutti a un sistema costruito su regole ferree. Il territorio di Gormenghast vive di tradizione e di riti. Il conte Sepulcrio, padre di Tito, è quotidianamente istruito da Agrimonio, signore della biblioteca, nelle azioni da compiere, secondo le prescrizioni di antichi tomi: «i tempi esatti, le vesti da indossare in ogni occasione, i gesti simbolici da eseguire». Agrimonio è l’unico a capire nella sua totalità questo complesso di riti : «il sacro spirito della tradizione, così come esso si concretava nelle varie celebrazioni quotidiane, era compreso da tutti, ma i particolari esigevano una vita intera di dedizione». Un identico senso del sacro opera a tutti gli altri livelli. Così la Grande Cucina è tenuta pulita da diciotto uomini noti come Lustrapietre Grigi, automi la cui vocazione è preordinata ed ereditaria. Ma è proprio dalla cucina che emerge una forza rivoluzionaria : il giovane Ferraguzzo il quale, come lui stesso ammette, ha «una natura poco rispettosa». Ferraguzzo chiama la Contessa, dama imponente che vive in un mare di gatti, «vecchio sacco di stracci» e ha persino un nomignolo per il sole : «focaccia di melassa». Strappando ad una ad una le zampe di un cervo volante, egli dichiara : «L’uguaglianza è il gran segreto. L’uguaglianza è tutto!». Ferraguzzo è l’elemento distruttore. Incendia la biblioteca, uccidendo il bibliotecario e spingendo alla follia il padre di Tito. È l’inizio di una stagione di violenza e di delitti. Ma Gormenghast resiste e il Custode dei Riti Immemoriali può proclamare Tito settantasettesimo conte. Dappertutto, anche nei voli più romanticamente fantastici, si sente questa fredda padronanza dell’intelligenza che tiene in vita, come un generatore, il mondo immaginario e ne esclude quello reale. Ma è poi vero che il mondo reale ne sia escluso? Prima di dare una risposta, occorre ritornare all’anno della pubblicazione di Titus Groan, il primo dopo una guerra lunga e orribile. Il connubio tra lo scheletro di Agrimonio e il teschio di vitello, la zampata del gatto che strappa dalla guancia di Ferraguzzo, sotto l’occhio destro, un «brandello scarlatto», il duello tra Lisca e Sugna nella Sala dei Ragni, non sono i particolari gratuiti di un romanzo gotico quanto piuttosto i riverberi di un’epoca di orrori. Il rogo che distrugge secoli di tradizione e la follia di un conte privato per sempre del sostegno di un rituale sembrano simboleggiare la fine di un ordine di secoli, ma questa volta autentico, storico. Ma sarebbe pericoloso scandagliare troppo a fondo in Titus Groan alla ricerca dell’allegoria. Esso rimane sostanzialmente il frutto di una fantasia chiusa in se stessa dove l’evocazione di un mondo parallelo al nostro è condotta con uno spessore di dettagli quasi paranoico. Ma è una pazzia illusoria, l’autocontrollo non viene mai meno. È, se vogliamo, un corposo distillato dell’immaginazione che l’intelligenza ha raffreddato alla giusta temperatura. In tutta la nostra letteratura in prosa non si può trovargli l’eguale: è splendidamente unico ed è giusto che lo si definisca un classico moderno.
Nel 2000 la BBC realizza una mini serie di quattro episodi dal titolo Gormenghast, basata sui primi due libri della trilogia, Tito di Gormenghast e Gormenghast. Serie diretta da Andy Wilson, annovera tra i membri del cast
Jonathan Rhys Meyers, Celia Imrie, Ian Richardson, Neve McIntosh, Christopher Lee.
Mervyn Laurence Peake è stato uno scrittore inglese nato in Cina da genitori brittanici missionari. Diviene celebre grazie alla trilogia di Gormenghast, un ciclo di romanzi (Tito di Gormenghast, Gormenghast e Via da Gormenghast) scritti tra gli anni Quaranta e la fine degli anni Cinquanta, caratterizzati da un’atmosfera fantastica e surreale. Il suo stile è stato definito “barocco”, ma la classificazione in genere “fantasy” è sempre stata riduttiva per descrivere le sue atmosfere orride e spaventose. Peake fu anche poeta, pittore e illustratore: famose sono le sue illustrazioni di alcuni classici della letteratura: Alice nel Paese delle Meraviglie di L. Caroll, La ballata del vecchio marinaio di S.T. Coleridge, Le Favole dei Fratelli Grimm e Lo strano caso del dr. Jekyll e mr. Hyde di R.L. Stevenson.
Fonti:
Wikipedia it
Wikipedia eng
Tito di Gormenghst, Adelphi, Saggio Introduttivo di Anthony Burgess
www.wuz.it
Fonte immagine 3: Contessa Gertrude by Happynesss
(1879)