Rivedere i miei cari fu meraviglioso per me, al punto che per un attimo dimenticai tutto quello che era successo e perfino le sue implicazioni. Ma poi iniziarono i racconti: i miei su Jasper, quelli di Fearghal su Daith, quelli di mio padre su un affronto fatto e mai dimenticato. Ad ogni nuova frase un tassello andava al suo posto, rivelando un disegno malvagio che ci aveva sconvolto la vita e del quale avevamo la prova tangibile in quel bambino, che mio padre si ostinava a cullare tra le braccia come fosse un qualunque frugoletto.
Io riuscivo a stento a guardarlo, invece: quei suoi occhi grigi me ne rammentavano altri, fissi su di me mentre la mia verginità veniva violata; quel suo sgambettare mi ricordava la mia impotenza nei confronti di quel corpo sopra il mio; quella sua pelle bianca mi riportava alla mente la mia, pura ed incontaminata, prima che qualcuno la inzozzasse con il marchio della sua infamia. Sì, posso dirlo senza indecisione: odiavo quella creatura con tutta me stessa.
Comunque fu proprio la voce di Fearghal a riportarmi alla realtà.
“Eleonor, l’unico modo di uscire da questo labirinto di scale e corridoi sembra essere quello di tornare all’uscita dalla quale siamo venuti noi. Anche se sinceramente non so dire cosa ci aspetterà laggiù.”
La mascella di mio fratello era serrata e il tono della sua voce tagliente. Sapeva che non avevamo scelta e cercava un qualche segno di approvazione nei miei occhi e in quelli di mio padre, ma in realtà nessuno dei tre aveva ben chiaro cosa fare.
“Andiamo” – dissi io. “Finché avremo suo figlio non oserà fare niente contro di noi.”
Fearghal mi fissò come se mi vedesse per la prima volta e, aggirando l’enorme voragine nella quale era scomparso il drago, riguadagnò la strada verso la porta. Io e mio padre lo seguimmo. Era così: quel bambino sarebbe stato il nostro lasciapassare.
Ma quando finalmente giungemmo alla fine del viaggio, la scena che si mostrò ai nostri occhi ci lasciò senza fiato. Enormi muri di fuoco ne fronteggiavano altri di acqua; voragini di roccia inglobavano gli urti di globi incandescenti che per un attimo riuscivano anche ad infiammare il liquido, vaporizzandosi poi in mille frammenti ardenti; trombe d’aria densa come pece attiravano tutto, acqua e fuoco nel proprio turbine, facendoli volare da una parte all’altra. I muri crollavano, la roccia si sbriciolava e quell’enorme alveare, prodigio di architettura sotterranea, adesso sembrava solo una trappola mortale sul punto di esplodere. Lo spazio intorno a noi soggiaceva alla potenza di quelle manifestazioni che, pur fronteggiandosi senza esclusione di colpi, riuscivano comunque a compensarsi. Era chiaro: Jasper e Daith si equilibravano, in qualche modo, ma nel loro assurdo duello avevano coinvolto ogni forza possibile. In teoria, la cosa avrebbe potuto proseguire sino alla fine dei tempi, distruggendo ogni forma di vita. Ed io, per quanto facessi, non riuscivo a non sentirmi una colpevole complice di quel caos.
“Adesso basta!” gridai. Strappai il bambino dalle braccia di mio padre, lo alzai sopra la mia testa e, minacciando l’atto di lanciarlo nel vuoto, continuai:
“Jasper, è questo che vuoi, no? Beh, vieni a prenderlo.”
Appena terminata la frase cominciai a correre. Le ultime cose che ricordo sono le grida di mio padre che mi pregava di non farlo e gli occhi imploranti ma fermi di Fearghal mentre lo prendeva per un braccio e lo tratteneva dal seguirmi. Non so se lui avesse capito le mie reali intenzioni ma come sempre mi appoggiava, dimostrandomi ancora una volta il suo affetto incondizionato. Non c’era tempo, ed io correvo; non ricordavo la strada, non avevo idea di quanto a lungo sarei potuta sfuggire a Jasper ma correvo, correvo. Il bambino piangeva, con strilli che mi perforavano il cervello e che aumentavano di intensità ad ogni passo. Man mano che si allontanava dalla fonte che lo aveva generato sembrava sempre più indifeso, ma a me non importava: avevo un progetto in testa, sapevo cosa fare.
E infatti alla fine lo trovai. Attraversai la passerella sottile fatta di roccia sospesa, raggiunsi lo spiazzo di pietra a picco su quel vuoto di fiamme che ruggivano e che, come mani sottili, arrivavano a lambire i bordi nel vano tentativo di strapparmi il bambino dalle braccia. Jasper, doveva essere lui, aveva intuito. Potevo guardarlo senza paura, adesso, perché non ero più disarmata: avevo suo figlio e lui lo sapeva. Vedevo i suoi occhi, rossi di brace, luccicare in quel movimento continuo di vampe. Aspettava, aspettava me e quello che avrei detto o fatto, me che adesso ero lì dove lì tutto era iniziato.
“Non voglio farti del male, Eleonor. Non l’ho mai voluto, non riesci a capirlo? Tu mi darai questo figlio ed anche altri, governeremo insieme. Sarai la mia regina, io ti…”
Non potevo sopportare di sentire quella parola, non da lui. E poi, non ero lì per ascoltare le sue patetiche spiegazioni ma per cercare qualcosa che avevo sperato di ritrovare dove l’avevo vista l’ultima volta. Qualcosa che, abbandonata a terra in un eccesso di sicurezza, era ancora lì e, luccicando, mi forniva la risposta che cercavo. Inizio e fine, principio e conclusione, lì e adesso.
Sempre tenendo il bambino stretto al seno cominciai ad avvicinarmi al bordo del burrone e quando fui ad una distanza sufficiente perché Jasper tentasse di prenderlo rotolai a terra, raggiungendo Aidan. In una frazione di secondo lo afferrai e, senza che lui potesse far niente per impedirmelo, lo conficcai nel cuore del bambino e nel mio. Lo stiletto perforò le due carni sovrapposte come fossero fatte di burro, mentre un urlo rabbioso di belva ferita ci accompagnava entrambi nelle profondità di una notte della quale, finalmente, conoscevo il significato. Perché il significato della notte non può essere che la morte, ora lo so. Lo so, perché vi parlo da quel margine sottile tra chiarore ed ombra che spetta a coloro i quali sanno che le tenebre sono figlie della luce e abitano ogni cuore che, pur amando la vita, è costantemente ad un passo dalla morte e ne conosce il colore. Che non è rosso sangue ma nero, nero come il buio più profondo, quello che alla fine ci inghiottirà, estinguendo forse ogni speranza. Ma io resto qui, sul bordo, ed aspetto: aspetto un qualsiasi segno di redenzione, godendomi il tepore di questo sonno che è senza sogni.
Quando Daith venne a prendermi, non posso dire che la cosa mi sorprese. Sembrò pronunciare il mio nome mille volte, e mille altre accarezzò la mia mano. Mi richiamava dal torpore tirandomi a sé, avvinghiandomi come aveva già fatto e chiudendo quel cerchio aperto tanti anni prima: quando per la prima volta le mie orme si erano sovrapposte a quelle di chi mi aveva preceduto, quando quell’impasto di polvere e sangue chiamato Eleonor era entrato a fare parte di qualcosa che ora lasciava, rinnovando le origini. Daith mi mostrava la strada per tornare a casa, finalmente: tra le sue braccia, in una foglia che cade, in un respiro di vento. Sarò lì, ogni momento di quel tempo che tutti definiamo eternità.
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Commovente.
Che dire ? Sono rimasto estasiato nel leggere, ogni volta aspettavo il lunedì con estrema curiosità. Adesso che è finito mi mancherà parecchio.
Grazie per le emozioni che ci hai regalato, anche del finale del tutto inatteso ma che ha un senso profondo.
Complimenti e ancora grazie … Maestà.
non credo negli addii ne nella parola “fine”, perché come dici tu, tutto ricomincia, non ti dirò ne “bel finale” ne “ciao”.
Da aspirante scrittrice a Scrittrice, ti abbraccio con affetto e sono certa che un giorno ci incontreremo, magari sulle fredde strade che portano alle misteriose luci del nord o in una lunga colonna di calore che ci farà cercare sulle vie illuminate il riparo di un’ombra.
Dovunque sarà, nel frattempo ci mancherai tu, i tuoi racconti e il tuo filo che ci connetteva… In attesa di trovare un minotauro per costringerti a tornare allo scoperto, continua a seguirci… potrebbe venirmi in mente di interrogarti sugli articoli 😛
Grazie a tutti! E’ stato un piacere ed un onore scrivere per voi! 🙂