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Capitolo 12 – Fuochi d’artificio

Callin si era tenuto lontano da quella maledetta bitta per tutto il giorno. A dirla tutta, si era tenuto lontano anche dal porto, per non correre rischi. Andava ripetendo a se stesso che lo faceva per evitare che la gente, memore della sua recita magistrale del giorno prima, gli chiedesse notizie sulla sua fidanzata scomparsa. In cuor suo però sapeva che lo faceva per non consentire alla sua parte troppo avida di consegnare la ragazza a Morel.
In fin dei conti stava semplicemente posticipando il più possibile la scelta che lo avrebbe definito. Ladro o rapitore? Morale o avidità? Ed in ultima analisi uomo o burattino?
Stufo di sopportare i suoi stessi pensieri, il giovane abbandonò la sua camera e, scendendo al piano terra, posò due monete sul bancone troppo sudicio della locanda dove alloggiava.
L’uomo della guardiola le arraffò al volo, pur non spostando la sua grossa mole dalla sedia.
– Questa sarà l’ultima notte – gli disse il ladro senza guardarlo ed uscì da quella bettola per confondersi con il flusso disordinato di persone che affollava la strada. Una zaffata d’aria puzzolente lo investì appena mise il naso fuori della porta. L’umidità ed i rifiuti si erano alleati per rendere difficile la vita delle persone e sembrava che Callin avesse scelto il luogo peggiore della città per alloggiare.
Con quel fetore alle calcagna, il ragazzo si mosse a passo svelto tra le strade dritte e dagli incroci squadrati della periferia. Ad ogni passo continuava a ponderare tutte le implicazioni morali ed economiche del consegnare o meno la ragazza.
Quando arrivò al porto non aveva ancora concluso nulla. La donna della prima bancarella, quella del pesce, era intenta a smontare tutto prima che il sole calasse ed il giovane si soffermò ad osservarla mentre sgomberava il piano di legno e riponeva i catini.
Callin sorrise amaro: nonostante tutto cercava ancora una scusa per distrarsi e fuggire dalla scelta che l’attendeva. Non c’era da sorprendersi in ogni caso dato che tutta la sua vita era stata un fuggire da scelte del genere.
Quando la donna ebbe terminato il suo lavoro, il ragazzo riprese a camminare lentamente raggiungendo la banchina. Il solito vociare della folla lo aveva avvolto in una coltre che ottunde i sensi, ma la bitta era ormai a pochi passi e null’altro contava.
Il ladro chiuse gli occhi, sospirò inalando salsedine e odore di pesce, lì in bilico sull’estremità della banchina e della sua vita. Lentamente aprì gli occhi e girò intorno alla bitta, guardandosi intorno circospetto. Si sedette sul freddo metallo mentre il Sole annegava, trascinato sul fondo dal Mare. Il loro sodalizio andava avanti da tutta eoni, fin dall’inizio del tempo. Il ragazzo si ritrovò a pensare che quel cielo d’un rosso intenso che andava pian piano mutando verso il viola poteva essere uno sfondo adatto a quello che stava per fare.
Non ebbe bisogno di voltarsi quando il passo leggero dell’uomo di Morel lo raggiunse.
– Ebbene? – gli chiese quando fu alle sue spalle.
I pensieri tacquero, finalmente. La mente sgombra riusciva a ragionare molto meglio e catene di cause ed effetti si univano e spezzavano in base ad una scelta piuttosto che l’altra.
In un attimo Callin realizzò che in cuor suo aveva già deciso ore prima, quando, la notte precedente, non si era seduto su quella bitta.
Ripensò al sorriso del vecchio, ecco l’ago della bilancia che impedisce ad uomo di essere un burattino.
– Dite al consigliere che le persone che sta cercando hanno fatto perdere le loro tracce appena sbarcate.
– Ne siete certo? A Morel non piacerà questa notizia.
– Non dipende da me se mi ha contattato con un giorno di ritardo. Sono addolorato almeno quanto lo sarà il consigliere, dato che non potrò ricevere la paga pattuita.
– Riferirò.
Callin si voltò solo alla fine della discussione, ma del suo interlocutore poté scorgere solo la schiena, mentre si dileguava e spariva tra la gente.

Un paio d’ore dopo, Callin era a fissare la porta di ingresso della locanda del Sole da una posizione defilata. Dopo aver parlato con l’uomo di Morel aveva deciso di andare fino in fondo e fare visita ai due fuggitivi. Le abitudini da ladro gli avevano imposto di controllare prima i dintorni, per prevedere qualunque evenienza. La locanda sembrava vuota, tranne che per la luce delle lanterna che filtrava da due finestre al primo piano. Una di quelle doveva essere necessariamente la stanza dove alloggiavano i due. C’era poco da meravigliarsi: per quanto il nome non lo lasciasse trasparire, quella era una bettola al pari della locanda dove alloggiava il ragazzo.
L’ora tarda aveva reso le strade di quella parte della città quasi deserte, fatto salvo per qualche passante solitario o alcuni carretti pieni di materiale diretti alle fabbriche. Callin attese pazientemente che uno di questi ultimi sfilasse davanti all’imbocco del vicolo dove era appostato prima di attraversare la strada. Lo stridio delle ruote metalliche sul selciato di pietre pareva assordante se paragonato al relativo silenzio notturno, ma non impedì ai sensi più sviluppati del ragazzo di percepire movimento alle sue spalle.
Si voltò di scatto, come un gatto attratto da un rumore improvviso, e con lo sguardo che fendeva l’oscurità, contò quattro uomini che si dirigevano verso di lui. Fece un passo indietro per guadagnare l’uscita dal vicolo, per loro era molto più buio di quanto non fosse per lui e probabilmente non l’avrebbero visto finché non gli fossero inciampati addosso.
– Buonasera!
Callin sussultò. Quella parola l’aveva colpito alla schiena con la stessa forza di un pugno. Era la voce del contatto di Morel che aveva incontrato al porto.
Si girò di nuovo e vide che il carretto si era fermato a centro della strada ed altri due uomini vestiti di nero gli andavano incontro. Uno di essi, quello che aveva parlato, gli puntava una pistola verso il petto.
– Venite! Venite nella luce, cosa fate lì nascosto come un ratto? – la voce divertita offese Callin più del dovuto. Si era fatto beccare come un principiante.
Il ragazzo non parlò, ma eseguì l’ordine mentre gli altri quattro lo raggiungevano. I sei, tutti in nero, formarono un cerchio intorno a lui. Aveva contato altri tre armati con una pistola, ma era sicuro che tutti ne avessero almeno una.
– Morel aveva ragione, dunque. Sono lì dentro vero?
– Chi? – chiese il ladro senza sforzarsi di fingere di non aver capito.
– Siete un tipo divertente. Che ne dite se io e voi non aspettiamo qui, mentre i miei amici effettuano il recupero? – propose sventolando la pistola sotto il naso del ragazzo. – Avanti, prendeteli.
Gli altri cinque annuirono e attraversarono la strada velocemente. Entrarono nella locanda due alla volta, pistole alla mano, seguendo sicuramente uno schema strategico studiato in precedenza.
– Sono ben addestrati. – commentò l’uomo che ancora minacciava Callin con la pistola.
Passarono dieci secondi, poi venti, mentre i due uomini attesero in silenzio eventuali rumori provenienti dall’interno.
– Le piace scommettere? Io lo faccio su tutto. – disse l’uomo – Tre monete d’argento che saranno di ritorno in meno di due minuti.
Callin lo guardò in tralice.
– No, eh? Non è poi così divertente parlare con voi. Secondo me… – non riuscì a terminare la frase.
Un boato assordante accompagnò la deflagrazione dell’intera locanda. Il primo piano era esploso, proiettando in strada calcinacci e pezzi di legno a tutta velocità. L’onda d’urto scaraventò a terra Callin ed il suo sgradevole interlocutore mentre il secondo piano della locanda del Sole crollava schiacciando anche quello all’altezza della strada. Una nube di polvere e fumo investì i due che giacevano a terra facendogli bruciare gli occhi e i polmoni.
Callin impiegò più di mezzo minuto per riprendersi dallo stordimento. Fortunatamente non era stato colpito dai detriti ed aveva solo qualche ammaccatura alle giunture. Scrutò nel polverone che andava diradandosi alla ricerca dell’uomo di Morel. Lo individuò che tossiva, ancora steso a terra, qualche metro più lontano. Si avvicinò con passo lento. Raccolse la pistola che l’uomo aveva lasciato cadere e quando gli fu davanti gliela puntò contro.
Ancora tossendo, l’uomo si alzò a sedere ed incrociò lo sguardo freddo e metallico della canna dell’arma.
– Penso che tu mi debba tre monete d’argento – disse Callin prima di poggiargli la pistola sulla fronte. Non aveva altra scelta. Tirò il grilletto. Il tonfo del cadavere che cadeva fu coperto dal crepitio delle fiamme che ancora consumavano le macerie della locanda.
Il fumo si era diradato e il ragazzo si voltò verso il bagliore di quell’inferno.
Le fiamme infuriavano alle spalle del vecchio che gli veniva incontro. Luci e bagliori tutti intorno, il Fuoco sopra ogni altra cosa avvolgeva e distruggeva, implacabile una volta risvegliato. Il vecchio camminava cadenzato e sicuro appoggiandosi ad un bastone d’acciaio che riluceva di rosso e oro, incurante di ciò che gli succedeva intorno.
D’appresso una ragazza lo seguiva, si sforzava di mantenere lo stesso atteggiamento distaccato del suo accompagnatore, ma era visibilmente irrequieta e desiderosa di correre.
Appena lo sguardo di Callin si spostò dalle sue gambe al suo viso, la riconobbe. I lineamenti tratteggiati su carta in quel momento avevano preso forma concreta e nonostante la distanza il ragazzo seppe con certezza che era lei che stava cercando.
Un sospetto fulmineo si fece strada nella sua mente: quel vecchio…
Una risata amara si espanse dalla sua gola al buio che lo proteggeva. Il famoso ladro era stato beffato dal suo stesso trucco, il vecchio del porto e quello che ora gli veniva incontro erano la stessa persona.
Callin non si mosse, consapevole che quella dell’uomo non era una traiettoria casuale. Ebbe l’impressione di essere sospeso fra due forze contrapposte: Morel e il vecchio, quei due lo muovevano come pedina di una scacchiera. Uno l’aveva fatto seguire, l’altro imbrogliato.
Intanto il vecchio avanzava e Callin immobile lo attendeva. Se fosse stato saggio sarebbe scappato, prostrandosi ai piedi di Morel, inventando una scusa. In fondo tutti i suoi uomini erano morti. Tuttavia non rubava le persone lui e non era un codardo.
– Vecchio, mi stavi cercando… vogliamo vedere insieme i fuochi d’artificio?
– Ti ho portato la tua fidanzata, li puoi vedere con lei! – un sorriso di denti bianchi e perfetti, la voce non più gracchiante.
Un movimento repentino. Il bastone dell’uomo si sollevò di scatto mutando ancora più velocemente, arrivato all’altezza della gola del ragazzo era diventato una spada.
Ho già visto quell’arma…
– Penso che ci sia un posto migliore per i fuochi dopo tutto, cosa ne dici? – chiese il vecchio, bagliore sinistro negli splendidi occhi azzurri.
La ragazza immobile aveva il viso in penombra. La guardò distrattamente, la mente altrove sospesa fra l’azione violenta e l’accondiscendere.
Ho già visto quell’arma…
La curiosità di sapere chi fosse quell’uomo che impugnava quella spada era più forte del resto. Anche del pericolo.
– Va bene, vecchio, non ho altri impegni se non quello di passare un po’ di tempo con questo splendore – così dicendo, ammiccò in direzione della ragazza e si volse dando deliberatamente le spalle alla spada, d’altronde, se avesse voluto ucciderlo l’avrebbe già avuta piantata in gola.
– Indicami la strada, bella ragazza….- aggiunse ancora Callin, ma non terminò la frase sentendo la camicia bucarsi e la punta della spada a punzecchiargli la pelle.
– Fai silenzio ragazzo, basta giocare. Va dritto sino al quarto edificio e poi gira a destra – il tono era serio e Callin seppe senza voltarsi che il volto dell’uomo in quel momento era concentrato.
Camminarono a lungo in un silenzio rotto solo dall’indicazione seguente. Vicoli e rioni, percorsi tutti bui e uguali. In realtà non si stavano allontanando molto dalla locanda del Sole.
Callin sorrise e li lasciò fare, desideroso di quella piccola vittoria. L’astuto vecchio non poteva prevedere anche la sua ottima vista notturna, ne la sua conoscenza di Saroh.
Quando arrivarono a destinazione Callin, infatti, era perfettamente consapevole di come ritrovare quel palazzo dove ora stavano entrando.
L’interno della struttura era logoro e vecchio, scatoloni impilati qui e lì puzzavano di muffa, il poco mobilio odorava di legno marcio e dai muri impregnati di umidità si diffondeva un forte olezzo d’acqua stagnante.
Un piccolo globo illuminò quello che lui vedeva e sentiva perfettamente al buio.
– Qui ci puzza! – protestò, la voce frivola che non gli apparteneva.
– Oh sta zitto e voltati.
Callin non sentì più la punta della spada nella schiena, pur sapendo che l’avrebbe ritrovata molto presto. Quando si voltò, infatti, l’arma era nuovamente posizionata verso la sua gola.
– Prevedibile – sentenziò il ladro.
– Non sempre ragazzo, non credi? – e la sua voce era gracchiante come il giorno prima.
– Divertente…
– Ora basta però! Parleremo sul serio io e te e i trucchi li lascerai a qualcun’altro. Non ho tempo ragazzo e tu mi sarai utile!
Callin aveva già pronta la prossima risposta tagliente, ma lo sguardo dell’uomo lo fece desistere. Acciaio nell’azzurro e nelle sue sfumature più scure la vendetta si scorgeva chiara e irremovibile.
– Va bene, amico – disse remissivo, ma il sorriso non spuntò beffardo – però questa l’abbassiamo.
Callin con un dito prese a spingere contro la lama sempre con maggior forza. Lo sguardo fisso in quello del vecchio. Il suo di acciaio era solo un po’ meno temprato, ma forse abbastanza per quella piccola battaglia: il vecchio doveva abbassare l’arma.
Poi accadde senza preavviso, come tutte le altre volte, i contorni si disfecero e tutto assunse colorazioni opache, sbiadite. Era quasi cieco, tuttavia, non abbassò le palpebre continuando a spingere contro l’arma.
Un’esclamazione di sorpresa provenne da una voce femminile.
– Capisco… – sentì, invece, dire all’uomo. Un commento stringato, atono, eppure Callin fu certo di scorgervi una nota amara, triste. Poco dopo le sue dita toccarono solo l’aria.
– Tanto ora come ora non riesce nemmeno a vederci – un mormorio basso.
Passarono pochi silenziosi minuti, dove si poté muovere, eppure era sicuro che anche gli altri due fossero rimasti fermi. Non aveva sentito nessun rumore.
Poco a poco la vista tornò.
Si ritrovò a guardare la ragazza che pensosa l’osservava. Lo sguardo duro e i lineamenti contratti su di un volto delicato.
Comprese di essere stanco per dirle qualcosa e farle cancellare quell’espressione di disappunto dal volto.
– Adesso che sai qualcosa di me… perché non giochiamo a carte scoperte? – chiese Callin rivolgendosi all’uomo.
– D’accordo ragazzo, io sono Vincent e lei è Rose. Forse questo Morel già te l’aveva detto…
– Non sono uno scagnozzo di Morel – scattò il ragazzo.
– Ci davi comunque la caccia. Anzi, mi davi la caccia! – puntualizzò Rose stizzita.
– Non ti ho consegnato, stupida!
Il viso della ragazza si imporporò di rosso a quell’insulto, più che per la vergogna però fu per la rabbia.
– Allora quelli nella locanda erano tutti miei amici?
– Mi hanno seguito!
– Sì, comodo!
Le voci dei due giovani si alzarono di un paio di toni, ma loro non se ne accorsero, impegnati come erano nella loro schermaglia.
– Stupida – inveì ancora Callin.
– Bastardo – sputò lei.
– Basta, ragazzi! – li zittì Vincent poi aggiunse rivolgendosi al ragazzo – So che non sei stato tu a fare la spia… – sicurezza nella voce, nelle sue parole.
Callin parve calmarsi di colpo annuendo all’alchimista in modo serio.
– D’accordo, però tu ora ci servi! Dobbiamo fermare Morel.
– Fate un buco nell’acqua, non sono un suo scagnozzo – Callin cominciava a spazientirsi di nuovo.
– Proprio per questo – sorrise sinistramente Vincent.
– Si sta facendo tardi. Dobbiamo incontrare altre persone… – incalzò Rose, ancora più contrariata dalla piega degli eventi.
– Hai ragione, ma siamo già nel posto giusto e lui verrà con noi, vero?
Occhi azzurri a scrutare il ladro così intensamente e lui continuava a non saper mentire a quel vecchio. Era incuriosito e attratto da quella storia, da quella coppia così strana.
Callin si chiese cosa avesse da perdere. Vincent non sembrava un tipo a cui si poteva dir no così facilmente. Inoltre, Morel avrebbe sicuramente cercato di danneggiarlo o peggio. Era ad un bivio, un’altra maledetta scelta: scappare nuovamente o eliminare del tutto il suo problema. Perché di questo era sicuro: Vincent voleva la morte del suo nemico.
La scelta più comoda era anche la più valida: non dover affrontare l’ira di Vincent e liberarsi di Morel.
– Vero! – sentenziò infine e acconsentì più a se stesso che a chi gli stava intorno.
– Bene, allora dacci un attimo che ci prepariamo per i nostri ospiti.
La ragazza e il suo maestro tirarono fuori dallo zaino delle tuniche dai riflessi argentei. Piacquero subito al ladro quei colori insieme, il blu del velluto, l’argento delle stringhe. Seguì con lo sguardo Vincent che l’infilava con movimenti pratici, poi l’uomo si passò le mani sul volto e vent’anni sembrarono cancellarsi, anche la postura diventò più eretta.
Il ladro incrociò lo sguardo quasi nuovo dell’uomo: senza rughe, i lineamenti decisi, i capelli neri che risaltavano ancor di più gli occhi chiari e duri.
L’alchimista gli sorrise, come il gatto farebbe con il topo e quell’espressione tolse un velo dalla mente di Callin.
Spesso si è presi dall’adrenalina, dagli eventi che scorrono e travolgono, dalle emozioni e non si notano i particolari.
Gli indizi così facili da cogliere sbattuti sotto nasi ignari.
Fu per quello, o semplicemente per il destino beffardo, che il ladro capì solo in quel momento chi aveva davanti.
Il destino e le sue beffe.
– Rojer… – chiamò.
Vincent sgranò gli occhi. Sorpresa e comprensione si rincorsero lungo i suoi lineamenti.
I dettagli così espliciti eppure l’arguzia degli uomini migliori non li colgono.
– Callin…
– Maestro Vincent venite! – la voce di Aineal fece sobbalzare sia l’uomo che il ragazzo.

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Capitolo 11 - Favola romantica
Capitolo 13 - Venti di Vendetta - Parte I
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Alessandro Zuddas

Alto, bello, forte, intelligente, affascinante, carismatico, sposta gli oggetti con il pensiero, sa volare, parla la lingua comune intergalattica ed è così dannatamente fantasioso che qualche volta confonde cioè che immagina con la realtà… diciamo spesso… anzi no! Praticamente sempre! A pensarci bene non è che sia così tanto alto, affascinante o tutte le altre doti prima esposte, ma a chi importa? Quando si possiede la capacità di creare un mondo perfetto o perfettamente sbagliato oppure ancora così realistico da poterlo sovrapporre alla realtà, perde di senso chi si è veramente e conta solo chi si desidera essere.

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