Lui si ripete con altre parole, di nuovo vedo quel guizzo di luce negli occhi: “NON SEI CAMBIATA!”
“Prova a dimostrarlo, Peter Pan”, abbasso leggermente lo sguardo, quel tanto che basta per fissarci negli occhi. Tutto o niente. I ragazzi dietro di me sono pietrificati dalla scena, non sanno che dire, non sanno cosa fare. Sentono che il vento fra noi non è naturale e sanno di avere il potere di intervenire, fare uno sgambetto a Peter e portarmi lontana. Ma faticano ancora a capire cosa ci vuole.
La verità è che bastano i sentimenti.
Con un sentimento prendi e con lo stesso sentimento puoi dare quello che hai ricevuto. Anche centuplicato. E’ questo il potere di un mangiatore. Rischia la vita con ogni respiro, ma può dare la vita all’Isola-che-non-c’è.
Peter estrae la sua spada dal fodero, Leprotto vuole lanciare il suo pugnale per difendermi, ma gli devio la mano e il colpo va a finire nel soffice verde scuro del prato.
Il verde della speranza. E’ iniziato tutto con quel colore, il giorno del mio compleanno.
E con quel verde sento che finirà tutto.
Ad un tratto le ombre scompaiono e l’eterno ragazzino getta a terra la sua arma, con rabbia indicibile: “IO NON UCCIDO LA MIA MAMMA!”, grida, e cade in ginocchio.
Io faccio lo stesso, distrutta. Ho di nuovo il mio bambino, ma per farlo stare bene, devo abbandonarlo senza neppure un abbraccio. Ricciolo l’ha spiegato: Peter in presenza di un mangiatore non può star bene.
Campanellino tintinna di una luce strana, fra il nero e il rosso, sembra più un piccolo diavolo che una fata e Peter l’afferra con tutta la sua ira: “Questi non sono i patti”, sibila quasi; “Ne riparliamo sull’Isola”, decide e poi aggiunge; “Se vuoi vivere, vattene adesso e ci rivediamo davanti al re e alla regina” Campanellino sembra contrariata, mi si avvicina con coloratissimi vocaboli nella sua lingua argentina e per la prima volta nella vita mi sento tranquilla e serena al pensiero di non capirne un’acca.
Cala il silenzio più assoluto. Tobias dopo un attimo lo rompe, sento il suo bastone tastare il terreno: “Io… noi stiamo più in là… alla statua”, propone. Sento gli altri ragazzini allontanarsi.
Per Peter il tempo che se ne vanno è già quasi al limite delle sue forze: “Non voglio dirti addio”, afferma e tossisce lieve, coprendosi la bocca con la mano.
“Non… non dobbiamo farlo, se non ci piace”, osservo.
Lui scuote la testa, triste: “Cosa farò senza la mia mamma?”
“Sarai il grande eroe dell’Isola-che-non-c’è”
Per un attimo l’orgoglio lo gonfia e i suoi occhi si riempiono di entusiasmo all’idea dell’avventura: “E tu, Wendy?”
Ci penso su. Tornare a lavorare dai Middleton? A vivere in famiglia, facendo impazzire definitivamente la mamma? No. “Io sono la tua mamma, lo sarò per sempre”, garantisco al ragazzino. E’ la mia unica certezza. “E come ogni mamma, è giunto il momento di guardarti volare, lontano da me”
“Ti ricorderai di me?”
“Sempre”, gli sorrido e cerco di metterci tutto l’affetto e l’amore di un abbraccio.
Peter ora tossisce più forte ed è avvilito: “Io dimentico sempre tutto”
“E se lo facessimo diventare un gioco, Peter?”, gli propongo.
“Che cosa?”
“Quando ti annoi, quando vorrai divertirti sulla Terra degli adulti, vieni a giocare con me a nascondino”, dico con un largo sorriso; “Mi nasconderò bene, però”
“Allora sì che sarà divertente”, sorride lui e si solleva leggermente da terra. Mi guarda negli occhi per un istante, poi deve tossire ancora. Ritorna serio e pensoso pone un’altra domanda: “Perché sei tu la mia mamma?”
Le parole mi escono fuori leggiadre come i movimenti in acqua di una sirena. Non sembrano neppure le mie, ma hanno qualcosa di magico e di etereo, tanto che non mi trattengo e le lascio fluire attraverso di me. “Forse perché dovevamo imparare che l’amore fa volare liberi entrambi”
Lui sembra valutare attentamente ogni singola parola e tossisce. “Non voglio dirti addio”, ripete.
“Nessuno ci obbliga”, obietto.
Peter inarca un sopracciglio e stavolta ripete le mie, di parole: “Nessuno?”
“Nessuno”, confermo e mi sento anch’io sollevata al pensiero; “La sera, conta le stelle. Anch’io guarderò le stelle e pregherò per te”
“E quando finirò di contare le stelle?”
“Puoi ricominciare daccapo e vedere se ne sono nate di nuove, piccolo mio”, gli rispondo.
“Piccolo?”, mi contraddice lui con una punta di fierezza che vuole sottolineare; “Io sono l’eroe!”
Sorrido contagiata dal suo lato migliore: quello che Ricciolo doveva aver visto in lui il giorno in cui si sono conosciuti, in un’epoca lontana, trascinando pesanti carichi sulla schiena. Quel suo bel viso che ti dava la gioia di vivere. Quel sorriso che cancellava ogni preoccupazione. “Per una mamma, il suo bambino può crescere o essere un eroe… ma rimarrà per sempre il suo piccolo”
“Sempre è un tempo seriamente lungo”
“E sarà ancora più lungo, stanne certo”, dichiaro e mi alzo; “Conta fino a cento, vado a nascondermi”
Lui si copre subito gli occhi: “Tanto lo sento, dove cammini”
“E chi ha detto che devo camminare, moscerino?”, lo prendo in giro e mi sollevo in aria, poco prima che lui si chiuda gli occhi con le mani davanti.
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