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Capitolo 38 – Solinar

Si staccò con reticenza dal corpo del figlio, cercando, ma senza poi tanto riuscirci, di assumere di nuovo un cipiglio autorevole. In fondo, non era giusto lasciarsi consolare proprio da lui.
Gli scostò amorevolmente un ciuffo dal viso, fissandolo negli occhi così uguali a quelli di Verritt. Tuttavia erano più duri e severi, sofferti. Quelli del marito non avevano mai avuto il tempo di diventarci.
Ora sarebbero stati lucidi di pazzia…
Strinse forte le palpebre e si costrinse a sorridere al viso corrucciato di Callin.
– Figlio mio, ho da dirti una cosa.
– È successo qualcosa a mio padre…
Glielo sentì dire in tono asciutto, una semplice constatazione. Dopo tanti anni sottovalutava ancora il retaggio Keelhin del figlio, guardò Vincent colpevole.
Lo sguardo dell’uomo era serio, imperturbabile, il suo sostegno era sempre stato così: muto e incolore. Lo vide assentire una sola volta impercettibilmente, chinare il viso e far cadere la maschera.
Con nuova forza Alette si rivolse verso Callin.
– Vieni. Ti porto da lui.
La discesa nelle prigioni fu quasi priva di discorsi, avrebbe voluto dirgli tante cose a quel figlio ritrovato.
Avrebbe voluto parlare della sua sete di vendetta e del suo orgoglio. Di come era stata egoista. Di quanto fosse orgogliosa di lui, ma ogni volta che provava a prendere la parola, il respiro le si fermava in gola.
– Sai, stai facendo un grande chiasso. Capisco già così parte di ciò che mi vuoi dire. Però, non continuare a tentare. Anche se riuscissi a formulare una frase, non sono ancora pronto ad ascoltare i motivi per cui mia madre mi ha abbandonato.
Alette si fermò sospesa fra un gradino e il successivo. Dura ed affilata nel suo peggior sguardo, soppesò il figlio. Muta, non disse una parola prima di continuare la discesa, suo figlio aveva ragione.
Quando svoltarono l’ultimo corridoio prima della cella in cui avevano rinchiuso il marito, lo udirono chiaro e straziante: il pianto di Verritt si levava in note basse, come un vento freddo capace di trapassare il cuore e riempirlo di tanti piccoli fori sanguinanti.
Barcollò e il ragazzo la sostenne gentilmente.
– Forse vederti lo calmerà.
– Madre non credo – Callin era stato investito, più di lei, dalle emozioni del padre – Il suo dolore…
Sentì la sua voce spegnersi e sollevando gli occhi sul suo volto si accorse delle lacrime che copiose scendevano dal viso del figlio.
Il suo sguardo rimase lucido e perso a fissare un punto sul pavimento, come se esplorasse i suoi ricordi. Alette capì che in realtà stava scandagliando la mente di Verritt.
– No mamma. Non ci sono più i colori, non ci sono più le montagne e i boschi. C’è solo un oceano nero sovrastato da un cielo senza stelle – disse strofinandosi gli occhi con la manica. Mentre parlava il tono di voce si faceva più fermo. – Lo voglio comunque vedere.
La cella di Verritt era ben illuminata e, come da lei stessa ordinato, con un buon letto e razioni di cibo abbondanti che però erano tutte intatte. Suo marito era in un angolo ranicchiato su se stesso, il suo lamento continuava infinitamente triste.
– Padre – Callin dapprima lo chiamò con un filo di voce, poi continuò gridando – Verritt! Sono tuo figlio! Smettila, padre – la voce di nuovo un sussurro – per me…
La donna si avvicinò alle sbarre e gli mise una mano sulla spalla.
– Lo hai detto anche… – non terminò la frase a causa di un forte dolore al viso, lancinante. Urlò e si allontanò di scatto. Si portò le mani al volto e le ritrasse sporche di sangue, lo stesso che in quel momento imbrattava le unghie di suo marito, il quale aveva ancora il braccio steso attraverso le sbarre cercando di ghermirla.
– Alchimista adesso è il mio turno, vero alchimista? – sputò Verritt.
Lei lo fissò nelle orbite vuote; i suoi lineamenti deturpati dalla rabbia. Il dolore crebbe di nuovo, assordante. Aveva getto lei i semi lei quella pazzia. Guardò il figlio, ma non trovò accusa nelle sue iridi, solo tanta pena, la stessa che avvolgeva il suo cuore in spesse bende legate così strette da farla boccheggiare.
– Ti ho amato e condannato – disse Alette quasi in un sussurro.
– Alchimista tu non sai amare! Tu e la tua specie di uomini senza cuore! Li hai visti i miei fratelli? Valash no retjun.
Poi si zitti. Ritrasse il braccio e la donna lo vide far dei respiri profondi per calmarsi, quasi la parte che era stata suo marito volesse prendere il sopravvento.
– Tu non hai mai amato me più di lui, vero Alette? – le domandò con la sua voce di un tempo.
La donna colpevole rimase zitta, cadde in ginocchio schiacciata dal passato. Non sapeva rispondere.
– Io ti amo come un figlio ama un padre. È sufficiente? – la voce di Callin era impastata di rabbia e furore – Sono un ibrido anche io. Hai mai pensato che anche tu hai creato un mostro? Il tuo non era egoismo, papà?
Alette con gli occhi appannati osservò Verritt inclinare il capo e rimanere per la prima volta in silenzio. Dall’altre parte della grata suo figlio stringeva i pugni e lo guardava fisso.
– Tu sei l’unica cosa buona tra tutti gli errori che io e tua madre abbiamo commesso.
Quelle parole e il modo in cui le aveva dette. La donna sperò per un lungo attimo che ci fosse un modo per salvare suo marito. Una scintilla di gioia le riscaldò il cuore, si avvicinò per accarezzargli la mano ancora sporca del suo sangue.
Verritt con uno scatto felino si ritrasse allontanandosi da loro e relegandosi nell’angolo più distante della cella.
– Vattene alchimista, vattene – piagnucolò suo marito, quasi in una preghiera.
Callin le prese la mano e gliela strinse forte, fortissimo, il ragazzo era scosso.
– Dobbiamo andare. Hai bisogno di riposarti e anche io – con quelle parole lo abbracciò forte, cullandolo, dopo tanto si sentì di nuovo una madre.
Sorpresa che il ragazzo glielo lasciasse fare lo guidò su per le scale, continuando ad avere un braccio lungo le sue spalle. Lo condusse in una camera vuota, dove il ladro potesse riposarsi, ancora così stretti quella strana coppia di madre e figlio.
Alette restò sull’uscio mentre lui si lasciava cadere sul letto ormai svuotato. Lo fissò per un lungo attimo, pensierosa e indecisa.
– Sai, tuo padre ha ragione: sei di quanto più bello abbiamo fatto – gli sussurrò prima di sparire nel corridoio.

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Trovò il leggero rollio dell’aeronave a cullarlo al suo risveglio. Non aveva mai amato il continuo oscillare di quei mezzi di trasporto ma in quel momento dovette ammettere che, con un po’ d’abitudine, poteva risultare anche gradevole.
Aprì gli occhi e si mise a sedere. La cabina era illuminata dalla solita luce artificiale giallastra. Meglio sicuramente di quella rossa dei primi modelli, ma niente a che vedere con una bella lanterna a fiamma viva. In ogni caso l’azzurro chiaro che si intravedeva dall’oblò urlava a lui ed a tutta la stanza che il sole era già sorto da un pezzo, per cui scese con attenzione dal letto e mosse qualche passo verso la piccola apertura nello scafo per dare un’occhiata. Una nuvoletta solitaria si affiancò all’aeronave e la superò lentamente sotto il suo sguardo pigro.
Sospirò e si ritrasse mentre cercava di sfilarsi la tunica della notte dalla testa.
Qualcuno aveva lasciato per lui un treppiede con una bacinella strategicamente riempita per metà, in modo che eventuali rollii o beccheggi eccessivi ne versassero il contenuto.
Si dette una lavata alla meglio. Quello era un altro dei problemi delle aeronavi ma fortunatamente erano in viaggio da solo una notte e quindi era più che sufficiente per essere presentabile.
Appena pronto, si diresse verso la sua tunica, perfettamente piegata su di una sedia nell’angolo della cabina. La spiegò, ammirando come ogni mattina le decorazioni argentee che solcavano il nero del tessuto partendo dai polsi e terminando sull’orlo inferiore. La tunica del decano era uno spettacolo da sempre e seppure la indossasse da anni ogni santo giorno, non riusciva mai a non ammirarla prima di infilarsela.
Si prese il suo tempo per sistemarsela. La mancanza di superfici riflettenti non gli impedì di sapere di essere impeccabile.
Raccolse un mazzo di fogli di pergamena legati dal piccolo tavolo e fece per uscire dalla cabina.
Allungò la mano per spingere la porta e si fermò a guardare l’anello imperiale fissato sul suo dito indice, accanto al sigillo dell’accademia. Strinse il pugno e sorrise, poi uscì.
Camminò con passo tranquillo nei corridoi, rispondendo ai saluti che gli alchimisti che incrociava gli indirizzavano in modo solenne. Entrò nella sala comandi senza bussare e sorrise nel vedere il pilota dell’aeronave saltare in piedi ed inginocchiarsi in attesa che lui gli porgesse l’anello imperiale da baciare.
Non era un alchimista, bensì un guardiamarina imperiale e da tale si comportava.
Solinar si avvicinò e gli porse la mano. L’uomo in terra eseguì il gesto di rispetto che si tributava all’imperatore e poi si rialzò.
– Riprendete il vostro posto, guardiamarina, e fatemi rapporto.
L’uomo riprese il suo posto, diede uno sguardo alla strumentazione che aveva a portata d’occhio.
– Tutto secondo il piano di volo che ci avete fornito ieri sera. Non ci sono state novità di rilievo questa notte.
– Bene guardiamarina. Mantenete la velocità minima. In ogni caso le corvette partite da Frish non raggiungeranno il punto di incontro prima di sera.
– Ho il permesso di parlare, decano? – chiese il pilota con una nota titubante nella voce.
– Permesso accordato.
– Con tutto il rispetto, signore, abbiamo abbastanza potenza di fuoco da fronteggiare la Risonanza ed altre quattro o cinque aeronavi di classe inferiore correndo solo il rischio di graffiare lo scafo. Perché non viaggiamo al massimo della velocità ed entro domattina saremo già di ritorno con la questione “ribelli” già risolta?
Il decano lo soppesò con lo sguardo finché il guardiamarina non abbassò il suo.
– Lasciate qualcuno al comando e seguitemi. Devo rispondere alle domande dei priori e tra di esse ci sarà sicuramente anche questa.
Solinar si voltò ed uscì senza curarsi che il soldato eseguisse gli ordini. Discese un paio di rampe di scale sempre con quel passo lento e tranquillo e raggiunse il piano più basso dell’aeronave. Entrò in una sala enorme, con il pavimento trasparente. Poteva vedere il terreno scorrere sotto di loro.
Al centro della stanza un grosso tavolo metallico ospitava una rappresentazione fedele di tutto l’impero e le terre limitrofe.
– Buongiorno signori. – disse all’indirizzo de due uomini con la tunica nera che erano intenti a discutere accanto al tavolo.
I due si girarono e chinarono il capo in segno di saluto mentre Solinar si avvicinava e lanciava l’involto di documenti sul tavolo.
– Priore Kleen, priore Julian, questi è il guardiamarina Lloyd. – spiegò indicando l’uomo alle sue spalle – Guardiamarina, i priori di Saroh e Glycend.
I tre si scambiarono un cenno di saluto.
– Ora che tutti conoscono tutti veniamo a noi. – esordì Solinar – Già nella serata di ieri i priori hanno espresso alcune perplessità sulla nostra situazione attuale. Ebbene è tempo che vi spieghi. Sappiamo dove si trovano Recro ed il suo gruppo di ribelli e sappiamo che a loro si è unito l’alchimista rinnegato Vincent Van Brentenn. Inoltre proprio ieri, prima della partenza, ho ricevuto un dispaccio che parlava di un gruppo di indigeni che ha superato i confini dell’impero ad est e sta dirigendosi velocemente verso la posizione dei laboratori sulle Bianche Cime.
I priori si scambiarono sguardi preoccupati.
– Perché allora non ci affrettiamo e colpiamo i ribelli prima che si organizzino? – il più anziano dei priori, Kleen, aveva preso la parola.
– Visto guardiamarina? La vostra stessa domanda. – Solinar sorrise all’indirizzo del soldato – Priore Kleen, ho ragione di credere che si siano già organizzati e con il supporto del rinnegato, potrebbero avere attivato la macchina per il controllo degli elementi. Nemmeno questa imponente fortezza volante potrebbe resistere contro la potenza di quella invenzione.
– E come temporeggiare potrebbe esserci d’aiuto? – era stato Julien a parlare.
– Stiamo attendendo che due corvette, guidate dal priore Rowen, ci raggiungano.
– Ma… – Kleen fece continuare l’obiezione, ma un secco gesto della mano di Solinar lo zittì.
– Ma, priore Kleen, né voi né i nostri nemici, siete a conoscenza che su quelle corvette sono presenti le ultime parti necessarie all’assemblaggio della nostra macchina di manipolazione, perfettamente funzionante.
Lo sgomento invase i volti di tutti i presenti.
– Colpiremo per primi e schiacceremo contemporaneamente i ribelli, il rinnegato e quei maledetti nomadi che per chissà quale motivo si stanno tanto affrettando per raggiungerli.

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Capitolo 37 - Ritorno
Capitolo 39 - Il passo di Shamal
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Alessandro Zuddas

Alto, bello, forte, intelligente, affascinante, carismatico, sposta gli oggetti con il pensiero, sa volare, parla la lingua comune intergalattica ed è così dannatamente fantasioso che qualche volta confonde cioè che immagina con la realtà… diciamo spesso… anzi no! Praticamente sempre! A pensarci bene non è che sia così tanto alto, affascinante o tutte le altre doti prima esposte, ma a chi importa? Quando si possiede la capacità di creare un mondo perfetto o perfettamente sbagliato oppure ancora così realistico da poterlo sovrapporre alla realtà, perde di senso chi si è veramente e conta solo chi si desidera essere.

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