Ero precipitata. Chissà a cosa stavo pensando per beccare in pieno un asteroide. In qualsiasi caso avevo raggiunto il mio obiettivo: andarmene da lì e trovare un pianeta abitabile, dove crescere la mia sorellina e mia figlia.
Semmai saremmo tornate, non prima di sapere che tutto era tornato tranquillo.
Come lo avremmo saputo però non ne avevo la più pallida idea.
Dopo quasi un’intera mattinata che zoppicavo con le bambine, mia figlia in braccio e Katie che camminava poco dietro di me fra radici e strane piante basse, fummo raggiunte da dietro. Era un umano, un uomo, dai capelli folti e spettinati, gli occhi segnati da due occhiaie e una barba malcurata. Doveva essere un umano, probabilmente sulla trentina. I vestiti erano sporchi e i pantaloni erano sfilacciati sul fondo.
“Da dove arrivate?”, sembrava abbastanza stupefatto dai nostri abbigliamenti. Non aveva mai visto bambine vestite con petali di rose? Io avevo addosso una rispettabile uniforme, il materiale e il taglio di quest’ultima di certo non era quello che lo lasciava incerto.
“Abbiamo avuto un incidente. Non ricordo niente”, affermai quindi. Forse era meglio che non sapesse tutto. “Dove siamo?”
“A Rio preto da Eva, in Brasile”
Restai un attimo sconcertata. Non ne avevo mai sentito parlare nemmeno nelle leggende dei maghi dei tempi in cui avevano abitato su un altro pianeta lontano. “Il vostro pianeta si chiama come?”, chiesi quindi di conseguenza.
“Scusi, ma su quale altro pianeta vorrebbe trovarsi? – Sulla luna?”, l’uomo sembrava essere divertito dalla mia domanda. Credo che non mi piace il suo strano timbro di voce.
“Bè, quante ne avete?”, chiesi di rimando. Per come ne parlava sembrava che ce ne fosse una sola in tutto l’universo. Il mio pianeta ne aveva tre. Sidhfaen di nuovo una sola. Questo che pianeta era per non sapere che ogni pianeta poteva avere un altro numero di lune?
“Ma lei chi diamine è? Un giornalista per fare tutte queste domande? E poi perché farle a me? Vivo solo nel bel mezzo del nulla”, dichiarò d’un botto lui, abbastanza irritato da chissà che cosa avevo detto o fatto.
Aveva o non aveva realizzato che avevamo bisogno di aiuto? Oppure non era lucido? E per quale ragione? Era per caso matto?
In chi diamine ci eravamo imbattute?
“Mi chiamo Feliénne Fallon Annalì”, pensai bene di ricominciare daccapo. Giusto per non insospettirlo sul fattore altro pianeta e compagnia bella. Apparentemente non era in grado di capirlo.
“E le bimbe sono le sue figlie?”
“Mia figlia e mia sorella, Serena e Katie”, replicai.
“Sorella”, ripeté lui, sconcertato dall’ovvia differenza d’età.
“Siamo in dodici, in realtà”, ci tenni quindi ad aggiungere.
Lui ora sorrise: “E quindi si ricorda di qualcosa” Per quanto assurdo che mi parlasse dicendo “lei” al posto del “voi”, decisi di non chiedergli da dove venisse quell’astratta abitudine. Di domande da porre ce n’erano, anche di più urgenti, e fra l’altro mi ero tradita da sola. Io stupida.
Aveva giocato d’astuzia. Ora mi toccava dire la verità o no? “Abbiamo avuto un incidente e non so da dove diamine arriviamo. So solo che è molto lontano da qui, tanto che siete la prima anima viva che incrociamo. Ho una spalla rotta e una caviglia slogata, e le fatine hanno bisogno di riposarsi. Abbiamo avuto una giornataccia”
“Questo si vede”, confermò lui e fece un ampio gesto con la mano; “Casa mia dista ancora mezz’ora da qui”
Per un pelo non mi sarebbero cadute le braccia per lo sconforto. Mezz’ora?
Katie fece coraggiosamente qualche passo in avanti, inciampando perché non troppo abituata a camminare avendo sempre avuto le ali di sostegno, ma il signore, lanciandomi uno sguardo per chiedermi il permesso, prese in braccio la mia sorellina: “A proposito, io sono Mio Jausey”
“Mio?”
E che nome era questo? I genitori dovevano essere stati proprio a corto di idee per chiamare il figlio così. Quante sorelle e fratelli avrà?
“Qualcosa da dire?”, mi chiese incerto.
Devo dire che non mi ispirava troppa fiducia, ma dovevo per forza di cose fidarmi di lui. “No. Sono solo… solo un po’ spaesata, ecco tutto”, alienata, a usare la parola giusta, precisai fra me e me.
Il giorno dopo fu un altro caos capire quello strano individuo.
In primo luogo mi chiese il mio nome e quello di mia sorella e mia figlia.
“Io sono Feliénne Fallon Annalì, mia sorella Katiushka Kjana e mia figlia si chiama Serena Soleil Annalì”, risposi.
Lui, con una matita e un foglio mezzo bruciacchiato in mano, mi squadrò perplesso e mi porse il tutto: “Vabbè, scrivi tu”
Feci come aveva domandato, ma alla consegna lui rise di nuovo: “Senta, non mi prenda in giro”
“Perché dovrei prendervi in giro? – Sono due generazioni che la mia famiglia usa i doppi nomi”, osservai. Insomma, d’accordo che avevamo nomi un po’ lunghi, forse. Ma voglio dire, non era lui quello che chiamava il proprio pianeta Terra e se stesso Mio?
Lui scosse la testa: “Non ho mai studiato greco, vedi di scrivere con l’alfabeto inglese”, mi riprese e sospirò, più rivolto a se stesso; “Prima che mi vieni con quello russo…”
“Cos’è inglese?”
Lui sgranò gli occhi, non voleva credermi: “Mai sentito parlare dell’Inghilterra?”
“E’ un altro pianeta che abitate?”
Lui si sbatté il palmo della mano sulla fronte. Un’espressione più di incredulità, un chiedersi come facessi io a non saperlo. Con lo sguardo però cercai di rigirargli la domanda non espressa: come avrei dovuto saperlo, io?
“Re Artù, la Tavola Rotonda, Harry Potter, Tolkien, Oscar Wilde, non ti dicono niente?”
Uno dei nomi mi diceva qualcosa. Era una delle leggende del pianeta da cui provenivano i maghi: “Re Artù regnava sul pianeta dell’Inghilterra?”, domandai.
Lui sospirò, con fare rassegnato: “L’Inghilterra è solo un paese”
“Perché lo chiamavano re? Al massimo era un capo villaggio”, osservai quindi.
Lui mi contraddisse di nuovo: “Diciamo paese anche quando parliamo di un territorio. All’epoca un regno”
“Oh”, che altro avrei dovuto dire?
Certo che aveva ben poca fantasia quel genere umano. Sarà una mutazione genetica dovuta al fatto che non hanno poteri magici, che non riescono a inventarsi nomi e vocaboli più interessanti, visto che si differenziavano tanto dalle definizioni comuni.
Ma quei primi giorni non poterono certamente sconvolgermi meno.
“L’albero era malato gravemente?”, chiesi una volta mentre lui spaccava la legna. Lo avevo già visto fare a un mago anni prima. Aveva sostenuto che avrebbe potuto eseguire il lavoro con la magia, ma che si sentiva meglio a far lavorare i propri muscoli.
Mio sospirò: “Perché non ti limiti a invadere e a sconvolgere la mia vita dentro alle mura di casa?”
“Perché non capisco i tuoi usi”, osservai; “Vivi da solo, non hai nessun re, eppure hai un capo per cui lavori, ma non gli invii niente”
“Scrivo, okay? – E’ questo che vuole il mio capo da me, che gli scrivo del lavoro che faccio”, nel corso dell’ultima frase fra una parola e l’altra la sua ascia tagliò diversi tronchetti.
“Tutto qui?”, ero un po’ delusa. In un primo istante avevo sperato fosse come mio marito, che scrivesse delle attualità.
“Tutto qui”, confermò lui; “Viaggio e racconto, passo dopo passo”, si dilungò; “Mai letto un Geo?”
“Geo?”, ripetei. Anche quella, che parola stramba. Però finalmente originale.
“Un giornalino che parla dei luoghi… della Terra, di questo pianeta”
“E’ la prima volta che vi metto piede, direi di no”
“Quindi sei un’aliena?”, domandò.
Sospirai. Non l’aveva capito da sé?
Lui parve leggermi nel pensiero: “Senti, non ti chiedo di raccontarmi vita morte e miracoli, ma a grandi linee, se tu parli così, lo viene a sapere mezzo mondo nel giro di due secondi”
Ci riflettei un istante, poi però posi di nuovo la mia domanda: “Perché fai a pezzi questo albero? Era malato?”
“No. Ma si ammala tua figlia se non accendiamo un fuoco”
Convinta che mi avesse dato il via libera a porgli domande sul suo pianeta, decisi di porre la mia seguente domanda: “Non basterebbe un fuoco?”
“E con cosa lo accendi? Scoccando le dita?”
Feci spallucce: “Dove sarebbe il problema? – L’albero vive, tu vivi e avete entrambi quello che vi serve”
Lui smise di tagliare legna, squadrandomi: “Cioè… fammi capire bene… mi stai dicendo che sapresti accendere un fuoco scoccando le dita?”
Scossi la testa divertita: “No, io sono una fata della terra, faccio crescere le piante, cambio la composizione del suolo, ma niente fuochi. Quelli li fanno le fate del fuoco. Come Gwin”
“Gwin?”
“La… la mia gemella”, abbassai lo sguardo, afflitta; “E’… è morta”
“Capisco”, sospirò lui e riprese in mano l’accetta.
Cambiai quindi argomento: “Abitano molti umani sulla Terra?”
“Sette o otto miliardi. Non mi sono più aggiornato da quando sto qui”
“E tutti abbattono alberi per scaldarsi?”
“Nelle zone più povere, sì”, confermò lui.
Non mi parve una risposta sufficiente: “E in quelle ricche?”
“Gasolio, metano,… ce ne sono di modi. Basterebbe avere i tubi che collegano la casa nel modo giusto e sei a posto tutto l’anno, al fresco in estate e al caldo in inverno”
“Sapete cambiare il tempo sul vostro pianeta?”, mi stupii. Non avranno avuto forse la magia, ma certamente un cervello di dimensioni inaudite per essere capaci di dominare una cosa simile. Almeno fu quello che pensai.
Lui scosse di nuovo la testa: “No, certo che no… è in casa che puoi regolare la temperatura che vuoi”, si passò una mano sul viso e poi fra i capelli, per scostarli dalla fronte imperlata di sudore; “Senti, perché non torni a casa, vai in cucina e fai un po’ quello che ti pare per cena? – Possiamo parlare volentieri di demografia e politica dopo che avrò finito il lavoro”
Non trovai nulla da ridire e rientrai nella casa. Trovai due pentole poggiate su due strane cose rotonde forgiate a una specie di rialzamento da una tavola di legno fissa alla parete. Sotto a questa strana costruzione c’era una bombola con tre strani simboli.
Immaginando potesse trattarsi di una bomba, presi di corsa le bambine e uscii con loro al più presto, chiamando Mio, avvertendolo che una grossa bomba era stata piazzata sotto alle sue pentole di metallo e se non chiamavamo qualche specialista per disinnescarla, potevamo saltare per aria da un momento all’altro, che quella non era più una casa sicura.
Lui gettò a terra l’accetta, incerto se arrabbiarsi e mandarmi a Corn, oppure se ridersela a crepapelle. Optò per un incrocio fra le due opzioni, mi afferrò per un braccio e mi fece chiaramente capire che voleva essere seguito. Mia sorella Katie mi chiedeva cosa stesse succedendo, ma non le risposi perché non sapevo la risposta.
Alla fine Mio smosse una manovella della bombola e accese una fiammella che aveva radici sotto a quelle strane superfici rotonde. “Questo è un fornello”, indicò la fiammella e poi la sua mano scese fino alla bomboletta; “Un fornello a gas”, specificò; “Tu prepari da mangiare cucinando qui sopra”, mi scrutò un attimo perplesso, alla fine decise di porre lui una domanda, non resistendo all’impulso; “Ma come diamine cucinavi sul tuo pianeta? – Conosci le bombe e non sai cos’è una bomboletta di gas per azionare due miseri fornelli?”
Io non sapevo se stare zitta per la meraviglia di quell’ingegno o per il dolore che mi avrebbe inflitto pronunciare la risposta, ma alla fine feci spallucce e basta.
“Abitavi su un pianeta proprio strano, tu”, commentò quindi e sospirò, uscendo di nuovo dalla cucina; “Se trovi qualche altra bomba o marchingegno infernale in casa, chiamami prima di far morire di paura le bambine”, si raccomandò.
Katie mi tirò per la manica, aveva il visino bianco su cui i suoi occhi color oliva risaltavano più del solito: “Non ci sono altre bombe qui, vero?”
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non ho facebook, per questo lo scrivo qui: MI PIACE!
Congratulazione!!! Mi Piace troppo!!!
Mei piace 🙂
Bellissimo racconto!!!
Mi piace un casino!!!!!!!!!!
E divertente, fuori dal comune e diverso da come c’é se lo immagina!!! Si riesce proprio a calare nel ruolo felienné. E poi la scena della bomba… E troppo forte come il fornello che per noi e una cosa comune alla vista di una persona di un’altro mondo abbi tutt’altro significato… Brava sara e continua cosí!! Nn fermare la tua fantasia, ti auguro buona fortuna!!!
Fantastico!!!!!
Carinoo!!! :’)
Continua cosí!!!!!
Troppo forte, nn sono più riuscito a smettere di ridere!!!