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18. Parmigiano reggiano per Topazia – Trap

I

“Soccia che figata!”
A parlare con accenti così vibranti di forbito entusiasmo era stato Giuseppe (detto Pinì) Strello, guardia giurata nel paese di Formaggella. Lavorava sempre di notte, perché era dotato di una sensibilità molto particolare: scivolava sicuro di sé  nelle tenebre della notte come un animale notturno; anzi: con gli occhi di un gatto e le orecchie di un pipistrello. In tutta la pianura Padana era noto come Little Cheese Man, l’Uomo Formaggio: divoratore insaziabile di latticini, da tempo nelle vene e nelle arterie gli scorreva più latte che sangue. L’Associazione per la salvaguardia del colesterolo l’aveva nominato presidente onorario. Inoltre, da tempo era entrato nella letteratura medica: non si spiegavano, i dotti di varie branche, come un essere umano potesse sopravvivere con un tasso di LDL pari a 600.
L’entusiasmo di quella frase gliel’aveva generato la vista di ‘PARMy JANE ’, la fantascientifica astronave progettata e realizzata interamente nello stato di Parmareggiania. O meglio: i vari componenti erano stati prodotti in una miriade di Piccole e Medie Imprese sparse nella regione che andava dal Castelmagnistan all’Asiagòvina passando per la Gorgonzolia. Come un immenso puzzle, il tutto era stato poi assemblato negli astrocantieri della Carciofin Meccanica, la società fondata quasi nella preistoria dal Comm. Carciofin de’ Sòttoli.
Adesso, in una notte che pure la luna se l’erano mangiata i top-astri, quel colossale parto dell’umano ingegno sovrastava ogni cosa e ogni dove, incutendo al buon Pinì un affascinato timore. Era come… già, che ricordo suscitava in quel suo cervello a pasta dura come una forma di parmigiano reggiano stagionata almeno trentasei mesi? Non volle soccombere alla fatica dei neuroni costretti a nuotare nel colesterolo. Chiuse gli occhi… si concentrò… ecco, c’era! Gli si materializzò davanti agli occhi una pagina di quelli che un tempo si chiamavano libri: da bambino ne aveva trovato uno in fondo a un vecchissimo baule appartenuto a qualche suo avo. Riportava la fotografia di un buffissimo edificio di quei tempi là, scomparso da secoli: si chiamava  Basì… Basilicata… di… di Sanpiero! Era grande, bella e davanti aveva tante file di colonne disposte quasi in cerchio, una davanti all’altra. Alcune persone vicino alle colonne sembravano formiche, tanto quell’edificio era gigantesco. Ecco: l’astronave che gli oscurava il cielo aveva le dimensioni di quel colonnato là, solo che era completamente chiusa e brillava sotto i raggi della luna.
Sedette in religiosa contemplazione, il Pinì Strello, subito imitato dalla sua fedele cagnolona Emilia: nata nel reggiano (inteso non come formaggio), tutti la chiamavano Emilia Reggio, il cane col nome e cognome. Le accarezzò il cranio da dinosauro con una manona affettuosa; poi le porse un osso fatto bollire nel brodo insieme alle croste di parmigiano. Lo snack prediletto della sua amica, ma capace di far venire l’acquolina in bocca anche a lui, che però sapeva resistere stoicamente. Mentre il quadrupede raggiungeva l’estasi dopo soli pochi morsi, il bipede prese a narrare, rivolgendole ogni tanto lo sguardo, a dimostrazione che era proprio lei il destinatario delle sue parole. L’animale, a mo’ di apprezzamento, in quei momenti sollevava una delle sue lunghe orecchie.
“Devi sapere, Emilietta cara, che lì dentro c’è una forma gigantesca di parmigiano reggiamo – la cagna sbavò a terra tanta di quell’acquolina che le vennero i reumatismi agli arti posteriori, dato che il terreno era un po’ in pendenza – perché… ma procediamo con ordine. Se ci riesco.”
Pinì aveva un grande cuore, che batteva regolare come un orologio al quarzo. Il cervello, invece, ogni tanto andava soggetto ad aritmie, aveva come delle extrasistole.
“Un paio di mesi fa le mucche al pascolo in una zona del nostro Appennino hanno cominciato a presentare strani fenomeni: muggivano in una lingua mai sentita e il loro latte veniva fuori già bollito. Si capiva che qualcosa non andava e che loro ne soffrivano. Ma siccome muggivano strano non si capiva una vacca di quello che dicevano… ah! ah! ah!, ho fato una battuta, ho fatto una battuta! Emilia, non ridi?”
Di fronte allo sguardo della cagna, fra l’attonito e il severo, tornò serio e riprese:
“Scusa, scusa, non lo faccio più. È che, lo sai, il profumo del parmigiano mi rende euforico. Dove ci trovavamo…? Ah sì: le mucche stranite. Passarono giorni e giorni di sofferenze incomprensibili, finché un mandriano si accorse che le povere bestie avevano le corna sempre rizzate, per giunta calde. Era la prima volta che gli capitava un fatto simile, e si allarmò parecchio. Non sapendo che pesci pigliare… bè, sai, Emilia, in montagna non è che vada in giro tutto ‘sto pesce… no, no, non ringhiare: giuro che non mi distraggo più! Chiamò il veterinario, ma quello, con tutta la sua scienza, ci capì anche lui una… un’acca. Visto come sono stato bravo? Ne chiamò un altro e poi un altro, ma andavano sempre via scuotendo la testa e alzando le braccia al cielo.
Nel frattempo la notizia di questi strani fenomeni si era sparsa in tutta la vallata e anche più in là, perché i medici degli animali ne avevano parlato con i colleghi che curavano gli uomini e questi con altri colleghi. Insomma:  salirono a quella stalla medici di varie discipline e di vari paesi, anche quelli con le barbe lunghe e bianche, con tanti anni sulle spalle e tanti diplomi appesi nei loro studi, ma… le mucche continuavano a surriscaldarsi senza che nessuno trovasse una spiegazione; figurarsi un rimedio.
Poi sai come succede, che la gente ha sempre fame di cose nuove e strane, e così era cominciata una specie di pellegrinaggio per vedere quel fenomeno. Il mandriano faceva un po’ di soldi perché vendeva il suo latte già bollito e si faceva pagare da quelli che volevano farsi le foto con le mucche. Le cose sarebbero anche andate bene, ma le bovine si lamentavano senza sosta, era uno strazio sentirle.
Un giorno, insieme a tanti altri arrivò sull’alpeggio un vecchio radioamatore di San Martino di Castrozza: non aveva scienza medica, non era uno stregone, ma era uno che aveva tanta esperienza di trasmissioni radio, anche se al suo paese dicevano che gli mancava qualche valvola. Osservò e ascoltò a lungo; poi,  collegando le corna rizzate agli strani muggiti, suggerì che le mucche stessero captando e ripetendo messaggi radio dallo spazio. Fu ricoverato presso un Centro di Igiene Mentale.
Ma la pulce si era infilata nelle orecchie di più di uno, e si sa che quando la scienza non ci arriva, si dà spazio alla fantasia. In gran segreto le autorità convocarono esperti di trasmissioni intergalattiche e di lingue astrali. Per alcuni giorni su quei pascoli un tempo tranquilli si videro girare strani soggetti armati di ancor più strani congegni. Risultò che in quella zona c’era una elevatissima concentrazione di onde micromegafoniche o roba del genere. Te la faccio breve, perché ci capisco niente di queste cose e mi sa che anche te…  Venne il giorno che gli specialisti più quotati, con gli strumenti più sofisticati riuscirono a captare e decifrare un lungo messaggio di SOS. Sempre lo stesso, ripetuto all’infinito. A quel punto non fu difficile individuarne anche la provenienza: giungeva dal pianeta Topazia, nella galassia detta Fromagerie. Quelli di lassù ci raccontavano una storia drammatica: a causa di una invasione di Rosgarosga del pianeta Coeleste Roll gli abitanti di Topazia si erano visti distruggere la produzione alimentare di una intera annata e tutte le scorte di viveri accumulate sul pianeta. Erano ridotti alla fame, costretti a sopravvivere centellinando le esche predisposte per catturare gli invasori, ma da questi disdegnate per le più succulente forme di toprovola, il formaggio locale.
I nostri astrogeografi mica avevano mai sentito parlare di quel pianeta e ci volle un po’ di tempo prima di stabilire di preciso dove stava di casa. Anche astrogoogle faceva orecchie da mercante:

La ricerca di“Topazia Fromagerie” non ha prodotto risultati in nessun documento

Insomma, nessuno ne sapeva niente, ma se quelli là ci chiedevano aiuto… Hei, Emilia, ti stai annoiando!?”
La cagnolona si era irrigidita nella posizione detta del Fior di Letto, con gli occhi chiusi, le orecchie abbassate e le zampe anteriori mollemente adagiate in grembo. Ma dalle sue fauci semiaperte proveniva un suono difficilmente assimilabile all’Om Mani Padme Hum dei meditanti buddisti. Russava come una motosega intasata di catarro. Bastò avvicinare alle sue narici un tocchetto di parmigiano reggiano per ridurre via via i giri della motosega, fino al silenzio totale. Una frazione di secondo prima, i canini di Emilia Reggio si avventarono sul prelibato bocconcino. Per arrotarsi su se stessi: Pinì, conoscendo i suoi polli, aveva riavvolto la lenza con la rapidità di un pensiero sconcio, lasciandola a bocca asciutta.
“Bella mia, questo te lo devi guadagnare. Dai, che adesso viene il bello. Un tecnico della nostra principale stazione di ascolto, tal Gioacchino Squarciotti, grande divoratore di fantascienza e di nocciole tostate, si ricordò della mitica ‘Guida galattica per gli autostoppisti’. Cercò l’edizione più recente e lì trovò tutto quello che poteva servire. C’erano perfino i numeri di cosmotelefono della Presidenza del consiglio di Topazia (era uno Stato unico) e gli orari delle partite di provofubal, lo sport più diffuso sul pianeta. Si pratica calciando forme di provola locale, su campi di foraggio (bel gioco di parole, vero Emilietta? Formaggio, foraggio… va bene, va bene, non divago) ben falciati. Per farla breve: i nostri specialisti di culture aliene presero contatto con quelli di lassù e grazie ai più sofisticati traduttori intergalattici riuscirono a farsi spiegare bene la situazione. Cercarono anche di fare delle battute sul doppio senso, qui da noi, della parola provolone,ma forse non era il momento più adatto oppure quei tipi là non hanno il senso dell’umorismo come noi.
Quando ritennero di aver raccolto una quantità di informazioni e di dati sufficienti, stesero una dettagliata relazione al nostro Organismo Supremo. Certo, la situazione non era delle più semplici, ci sarebbero stati pure dei costi non indifferenti, ma la comune passione per il formaggio fece saltare tutte le resistenze. Si decise di aiutarli, orgogliosi che avessero scelto proprio il nostro Paese come destinatario del loro appello. Naturalmente la scelta non era avvenuta a caso: in base alle conoscenze dei governanti di Topazia il nostro formaggio era il più adatto a soddisfare l’organismo dei topaziani.
Non te lo nascondo, sperando di non ferire il tuo animo sensibile: da parte nostra c’era anche un po’ di calcolo, perché si sperava di conquistare un nuovo mercato per il nostro gioiello caseario. Parlo bene, vero, Emilia?
Fu emesso un bando per selezionare un gruppo di scienziati e tecnici parmareggiani disposti a rischiare la vita per salvare un mondo così lontano ma così vicino. No, no Emilia, non guardarmi storto: questo non è un gioco di parole mio, l’hanno proprio detto i grandi capi. L’equipe dei selezionati si è rinchiusa per due settimane in un caseificio di Barco di Bibbiano, compiendo studi, analisi, simulazioni al computer, esperimenti su esseri umani, che erano poi loro. Alla fine hanno elaborato un grandioso progetto, una sfida alla natura e alle sue leggi. Tutto il materiale che hanno prodotto è stato salvato sulla rete dei server del nostro CNR, perché nessuna di quelle menti eccelse ha potuto mai riferire in prima persona quanto avevano partorito.
Sono stati trovati tutti morti, affogati nel loro colesterolo: non erano sopravvissuti ai loro stessi test. Avevano però un’espressione beata, quasi impressa a fuoco sulle faccione che sembravano forme di parmigiano. Il… palo della cuccagna svettava verso il cielo come un obelisco destinato a valicare i secoli. Tu sei poco portata per le lingue, Emilietta mia, ma devi sapere che gli antichi popoli longobardi avevano maturato la convinzione che “Ol grana al fa tira’ la cana”. No no, non agitarti: tu non c’entri con quel tipo di cana lì.
Il progetto era semplice e faraonico: inviare su Topazia un carico pantagruelico di forme di parmigiano reggiano, stivate in un’astronave mai prima concepita e costruita. L’equipaggio dovrà affrontare un viaggio mica da poco: hai voglia a stipare bustine di cibi liofilizzati, per giunta schifosi e deprimenti. Meglio confezionare una gigaforma di parmigiano, che servirà, usata con moderazione, come sostentamento per tutto il viaggio. Inoltre, alleggerendosi man mano, si procederà più spediti e consumando meno carburante.
Per garantire il massimo della qualità – lo sai che il nostro Consorzio va mica giù tanto delicato su queste cose – hanno selezionato il latte migliore: mica quello delle frisone, che è tanto ma più miserino. No no: hanno selezionato la produzione dei pochi allevamenti di Reggiana rossa e l’hanno fatto lavorare dai migliori maestri caseari. Il motto era: “Il top per Topazia!”. E dai, non prendertela sempre con me, non l’ho mica inventato io.
Le hanno requisite tutte, perché ci vogliono sedici litri di latte per fare un chilo di parmareggio e le Reggiane te lo danno a gocce. Ci pensi, Emilia – carezza sul testone uggiolante – che il nostro nettare degli dei viene prodotto ancora come millenni fa?
Io le ho viste, sai, le impalcature che han tirato su per costruire quella specie di gigavasca dove versare man mano il latte. Poi han dovuto disboscare un bel tocco di Appennino, per costruirla, perché doveva essere rigorosamente in legno delle nostre parti. La stagionatura gli han fatto fare proprio quella minima, perché c’è mica il tempo e poi col viaggio che dovranno fare, hai voglia a invecchiare. All’interno, nel cuore, è stata ricavata una nicchia per alloggiare gli uomini con tutti i confort e le strumentazioni. All’esterno dell’enorme cilindro caseario bombato, ha preso corpo l’astronave vera e propria, con i motori, i pannelli per catturare l’energia cosmica, le antenne e tutto il resto. Tra l’involucro esterno e il gigaformaggio hanno creato un’intercapedine dove stivare decine di migliaia  di forme di parmigiano reggiano.
In tempo record, con il contributo di tutto il Nord Italia, è stato realizzato un contenitore in titanio che replica in modo perfetto la forma di parmigiano, ovviamente di dimensioni maggiori. Da fuori, mai nessuno potrebbe immaginarsi quale sia il suo contenuto. Un vero gioiello che tutto il mondo ci invidia e che  rilancerà anche la nostra economia a livello interplanetario: abbiamo dimostrato che nel sangue c’abbiamo ancora il DNA del Leonardo da Vinci, mica solo il colesterolo come dicono i maligni.
A proposito di sangue, soccia, mi stavo dimenticando di dirti della grande scoperta-invenzione fatta dai nostri gastro-scienziati: dopo prove e studi di ogni tipo hanno scoperto per caso che trattando opportunamente il sangue prelevato a grandi consumatori di parmigiano (modestia a parte, sono stato una delle cavie) se ne ricava del preziosissimo carburante concentrato ad altissimo potenziale. Lo useranno durante il viaggio, raccolto in enormi serbatoi sterilizzati. E se servirà, useranno il loro stesso sangue.”
Tacque, Pinì Strello, commosso e stremato dal suo stesso racconto: non era un grande oratore, a parte i giochini di parole. Staccò un morso di parmigiano di Canossa (lui ormai li riconosceva al palato, come un sommelier con i vini), diede un’ultima occhiata al fantalatticino che gli stava di fronte e prese la via dell’uscita, per andarsi a godere il meritato riposo. Salutò ‘PARMy JANE’ con un ciaociao della mano, accompagnato da una lacrimuccia. Il giorno dopo sarebbe stata fatta ruotare e scagliata nello spazio da un mastodontico congegno costruito per l’occasione. Tutta l’operazione poteva essere assimilata a un titanico lancio del disco. Quel movimento l’avrebbe fiondata negli spazi siderali, dove poi si sarebbe dovuta gestire da sola..

II

“Comandante Vanvotti! Comandante Vanvotti! – tuonò Geppo Scantamburlo, l’avvistatore di bordo – Ne arrivano altri, da tutte le parti!”
Ulisse Vanvotti era l’ammiraglio spaziale più quotato dell’astroflotta della Parmareggiania, detto anche il Parmeggianino per la passione di dipingere quadri utilizzando parmigiano freschissimo grattugiato e mescolato al latte. La sua perizia (come navigante) era messa a dura prova già da alcuni giorni: dopo un paio di mesi di viaggio per regioni spaziali mai esplorate ma tranquille, erano iniziati i violenti assalti delle Pantvegane, pachidermici ratti scafandrati e razzodotati, in grado di muoversi a velocità mozzafiato. Attaccavano in branco, fiondandosi sull’astronave in diversi punti contemporaneamente, ferendola con le unghie simili a sciabole d’acciaio temperato e con denti più micidiali di picconi acuminati. Fiutavano la fragranza del parmigiano anche al di là della possente barriera metallica: andavano in bestia per non poter degustare quella leccornia della quale sempre avevano sentito favoleggiare, senza che mai arrivasse in crosta e polpa fin nel loro regno. Come se in un’isola sperduta, abitata da soli naufraghi maschi ivi residenti da anni, piombasse all’improvviso Scarlett Johanson.
“A me ricordano i tossici a rota, con quegli occhi che sembrano pozzi neri! – aveva sbottato al loro primo attacco Gianastolfo Ballardi, il comandante in seconda. – Quei signori farebbero venire la cagarella alle tigri indiane più feroci.”
La bramosia e la golosità spasmodiche furono però la rovina dei gigaratti: mentre si scagliavano contro i tremebondi parmareggiani, emettevano ettolitri di acquolina: a causa del gelo siderale, gli si ghiacciò addosso, appesantendoli sempre più, costringendo i razzi a un superlavoro che esaurì il combustibile prima del previsto. Affogarono uno a uno nella melma galattica, frutto degli scarti di produzione delle stelle fredde.
Gli umani festeggiarono lo scampato pericolo con una calibrata consumazione di un superbo parmigiano barricato di quarantotto mesi, affogato in un Gutturnio dei Colli piacentini Riserva. Roba da orgasmo multiplo, avessero avuto l’organo preposto.
Nelle settimane che seguirono, mano a mano si addentravano in regioni sempre più vagamente descritte anche dalla ‘Guida galattica per autostoppisti’, gli incontri sgradevoli si fecero più frequenti. Sfuggirono per poco all’inseguimento di uno sciame di asteroidi anarcomagnetici, dediti a violare tutte le leggi dell’astrofisica e dell’astroetica. Venivano colti da raptus erotico per quella forma così inconsueta e per quei colori da sbornia interstellare. Il Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano aveva preteso che l’astronave riproducesse perfettamente i colori di una forma del loro gioiello, compresa la marchiatura impressa con la fascera marchiante lungo tutto lo scalzo della forma. Pareva un sole finito sotto una pressa, con i raggi un po’ sbruciacchiati. Solo che agli occhi minerali degli asteroidi si materializzava un viola sgargiante punteggiato di cremisi. La loro anima barricadiera li spingeva fino al sacrificio estremo pur di entrare in contatto fisico con quello sgargiante oggetto del desiderio. La corsa per sottrarsi a quei bolidi arrapati lasciò senza fiato anche la nave spaziale: dovettero immettere nei suoi serbatoi una dose doppia di colesteropropellente, arricchito di croste grigliate e grattugiate a mano.
Neanche il tempo di riprendersi dallo scampato coito siderale, che Geppo Scantamburlo lanciò l’allarme già citato: a guisa di siluri pelosi e ghignanti si precipitavano verso di loro nugoli di fetidi Hoogerwerfidi proporzioni mai viste, nemmeno nel peggiore incubo da ingestione smodata di parmareggio avariato. Si scagliavano contro ‘PARMy JANE ’ con le zampe protese a formare una lancia dotata di micidiali unghioni che scalfivano lo scafo ad ogni impatto, seppur di poco. A lungo andare quelle migliaia e migliaia di graffi qualche microfalla potevano aprirla: il sublime aroma del parmigiano li avrebbe fatti impazzire definitivamente, trascinandoli in una sequela di coazioni a ripetere fino alla morte. Non solo loro.
Felix Gingonbell (così detto perché era palloso come un albero di Natale), ebbe un’idea geniale: era un cultore di cartoni animati d’altri tempi, in particolare di quelli che avevano per protagonisti i gatti. Con la calma olimpica di un eroe greco ne recuperò uno su Comixpedia in cui si udivano miagolii particolarmente inferociti, quasi simili a ringhi di  tigre. Li registrò amplificati, li manipolò ulteriormente e poi li fece diffondere all’esterno dell’astronave, mediante i gigadiffusori in dotazione, di solito utilizzati a mo’ di clacson. Nessuno di noi ha mai avuto il privilegio di toccare con le proprie orecchie quali siano gli effetti sonori nello spazio siderale: pare che nemmeno il più demenziale impianto terrestre si avvicini a quei livelli acustici. Sia per potenza che per distorsione. Prova ne fu che i rattoni, dopo aver seminato pestilenziali cosmoescrementi un po’ ovunque, presero su le loro cose e se ne ritornarono gatton gattoni da dove erano venuti, nella regione spaziale detta delValloasapéndostan.
Gli impavidi astronauti si concessero un nuovo brindisi, perché se l’erano davvero vista brutta, immersi in quella nuvola mostruosa votata a papparseli. Prima però avevano messo a nanna con un potente sonnifero il pur eroico Gingonbell, che non la finiva di elencare, con date, registi e produttori, tutte le edizioni di ‘Gatto Silvestro’.
La quiete non durò a lungo, come in tutti i romanzi di fantascienza che si rispettino. L’astro-parmigiano pareva un pifferaio magico masochista: si tirava appresso tutte le sorghe dell’universo mondo e in tutte pareva scatenare il medesimorattus erotico. Non riuscivano a sottrarsi all’impulso irrefrenabile di papparselo, anche a costo di sfracellarsi i canini sulla confezione. Purtroppo non erano nelle condizioni psicofisiche adatte per apprezzare la tenuta della medesima, il che avrebbe costituito una ottima pubblicità per la ditta produttrice.
Avvenne così che presto seguirono i barbarici Mollicomuli, sgorganti dalle chiaviche di tutti i buchi neri (i primi astronauti li avevano perciò soprannominati Blèccole).
Poi vennero come lanzichenecchi i lungobaffuti Tawitawiensi di Utòpia, con baffi simili ad alabarde affilatissime. Dotati di una visione fatalmente utopistica non erano in grado di vedere altro che il parmigiano, ignorando del tutto l’esistenza dell’involucro esterno. Traditi dalla loro stessa natura, si schiantavano a migliaia contro il titanio, acquisendo il senso della realtà solo in punto di morte.
Nemmeno il tempo di rammendare le smagliature da loro provocate, che si annunciarono con squittii da basso tuba i Tiomanici, corazzati di peli in grado di sfregiare l’acciaio temprato.
Per non parlare degliXanthuri  del pianeta Xanadu, nella galassia di Zhenglan di Sopra. Cavalcavano i ciclopici Fausendfiit, capaci di sviluppare una velocità di mille nodi al secondo. Per fortuna, spesso i nodi erano così numerosi che non riuscivano più a venirne a capo e gli si intorcinavano le zampe.
E i pirati spaziali, che nemmeno si capiva che creature fossero, sempre immersi in flussi onirici capaci di spostarli alla velocità del sogno? S’era sparsa la voce (“L’universo è piccolo, la gente mormora”, mi diceva sempre mia nonna Tugnina) che vagava nell’iperuranio, laChimera che da sempre attendevano, l’Apoteosi del Piacere, il Tesoro che li avrebbe resi ricchi e felici per il resto dei loro giorni (poco importa quanti fossero e poco importa pure chi loro fossero). Attaccavano di sorpresa, materializzandosi dalla polvere spaziale: ora in forma di Galactobacilli, ora nei panni di Astrofilococchi, ora come incarogniti e lascivi OGM (Onanisti Geneticamente Mortificati). L’equipaggio della‘PARMY JANE’ dovette restare sveglio un’intera settimana per non soccombere agli assalti di quelle subdole creature, invisibili per le loro retine: cercavano di penetrare all’interno dell’astronave scivolando nei loro sogni, nei loro desideri, nella loro nostalgia di casa. S’ingozzarono, gli atterriti umani, di parmigiano reggiano per restare svegli e vigili: il piacere che ne traevano fu per loro come la cera nelle orecchie dell’omerico Odisseo di fronte al canto delle sirene.
Uscirono prostrati ma vittoriosi da queste settimane di prolungati, snervanti attacchi. Sarebbero riusciti a godersi una meritata pausa di riposo? Pareva che quelle bestiacce astrali non dormissero mai, così anche loro erano costretti a turni massacranti per garantire una guardia continua. Bello sprofondare nel sonno respirando lo scenario struggente dell’infinito cielo stellato, delle sculture variegate delle costellazioni, delle galassie e di altri sconosciuti agglomerati cosmici. Ma… non vi dico la faccia del capitano Vanvotti quando il magazziniere gli venne a dire che le ultime briciole del loro parmigiano erano quelle che gli stava porgendo sul piatto. Sorbole, c’avevano dato dentro al di là delle più pessimistiche tabelle di marcia elaborate dai nutrizionisti dell’Istituto Colo & Sterolo. C’era poco da torchiare le meningi e lasciarsi andare a sedute psichedeliche d brainstorming: non avendo alternative plausibili, dovevano intaccare la fornitura destinata a Topazia.
Non fu una decisione presa a cuor leggero, né poteva esserlo, con quel sovraccarico di colesterolo: però, se lui e i suoi uomini morivano di fame, sai chi gliela portava la manna a quegli altri moribondi. Presa la pur sofferta decisione, si sentì meglio, come un condannato a morte graziato all’ultimo momento. E pazienza se si sarebbero saziati un po’ meno gli abitanti di Topazia.
Millenni separavano i nostri eroi da quelli della tragedia greca, ma il Fato non s’era cambiato d’abito e continuava  imperterrito a sciorinare trame all’altezza di uno sceneggiatore ipocondriaco e sadico. Il prode Comandantesi sentì venir meno le forze e la speranza quando l’ufficiale di rotta gli comunicò che se l’erano bellamente persa. L’astrobussola era stata danneggiata irreparabilmente dai continui attacchi degli astrosorci di ogni specie; in compenso, le comunicazioni con la madrepatria erano  impossibili per via di una violenta tempesta magnetica scatenata dalle strumentazioni di Sorcona, l’astrofogna dalla quale originavano tutte le varie generazioni di ratti spaziali e affini.
Abbandonati dalla scienza e dalla tecnica, per mesi e mesi andarono alla deriva assoluta, trottola impazzita barcollante verso l’infinito. Oppure girando in tondo senza averne la minima coscienza? L’inedia era il loro passatempo quotidiano, affogata nell’abuso sistematico di parmigiano reggiano: l’ultimo contatto con la madreterra, con le famiglie, con la loro identità. Con il piacere. Con la vita.
A parte la trippa in eccesso (si sparavano una forma a testa ogni due settimane, giusto quei trentotto chili), l’effetto collaterale più devastante era il perenne priapismo: impossibile liberarsene, sia con le buone che con le cattive. Ci fu chi lo interpretò come un anticipo del rigor mortis.
Nemmeno sulla ‘Guida galattica per autostoppisti’ trovavano più notizie utili per trarsi d’impaccio o capire almeno dove cavolo si trovavano.

“Comandante, guardi là!” cercò di urlare il solito Scantamburlo.
L’astroparmigiano si stava dirigendo per forza d’inerzia verso una zona biancastra, fluida, quasi una colata di latte. Mano a mano si avvicinavano cresceva di intensità il bagliore biancastro, fino a sfiorare l’incandescenza. Cresceva anche la temperatura, come rilevato dai sensori esterni. Lo stremato equipaggio non poteva far altro che assistere impotente a questa inesorabile deriva verso quello che aveva tutta l’aria di essere latte caldo. Oscillavano tra fascino e terrore, sentendo che qualcosa di grandioso e di definitivo stava per accadere. Grazie alla struttura esterna in titanio multistrato ‘PARMY JANE’ scivolava indenne in quel latte cosmico.
“Capitano, la temperatura esterna si è assestata a + 55°!” gracchiò Gingonbell.
55 gradi… quelli che forgiano il parmigiano reggiano! Infatti qua e là si intravedevano i granuli caseosi che andavano a depositarsi chissà dove. Buon Dio, erano forse giunti al miticoBig Bang, all’utero dell’Universo, dove tutto aveva avuto origine? E quel vecchio laggiù, incommensurabile, incandescente era forse…?

Pinì Strello batté alcune volte le palpebre, infine si decise ad aprire del tutto gli occhi. Si era addormentato sul prato di fronte alla sua casetta, vinto dall’emozione di aver assistito alla nascita di una supernova. Da anni era in pensione, poteva anche permettersi il lusso di addormentarsi ogni tanto. Emilia già da tempo aveva fatto felici i vermi, ma lui tutte le notti passava ore e ore a scrutare la volta celeste nella speranza di veder comparire‘PARMY JANE’: non aveva mai più dato notizie di sé. Nemmeno il pianeta Topazia si era più fatto vivo e le mucche erano tornate a pascolare serene e con le corna fredde.

Qualche volta gli veniva il dubbio che tutto fosse stato solo un sogno, un brutto sogno. Ma poi sorrideva: lui non dormiva mai, come poteva sognare?

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Alessandro Zuddas

Alto, bello, forte, intelligente, affascinante, carismatico, sposta gli oggetti con il pensiero, sa volare, parla la lingua comune intergalattica ed è così dannatamente fantasioso che qualche volta confonde cioè che immagina con la realtà… diciamo spesso… anzi no! Praticamente sempre! A pensarci bene non è che sia così tanto alto, affascinante o tutte le altre doti prima esposte, ma a chi importa? Quando si possiede la capacità di creare un mondo perfetto o perfettamente sbagliato oppure ancora così realistico da poterlo sovrapporre alla realtà, perde di senso chi si è veramente e conta solo chi si desidera essere.

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