“Te lo ricordi ancora nonno Attecécemel, il nonno più incredibile di tutte le galassie dell’universo mondo?”
“Potrei non ricordarmelo? Veniva da una stirpe di grandi lavoratori e ancor più grandi mangiatori: lavorava senza sosta per mesi e mesi, notte e giorno, giorno e notte. Una pausa ogni tanto per mangiare un bue allo spiedo, preparato dalla nonna con la sapienza dell’ ‘Era del barbecue’ o spiedoni di polli, oche, anatre, peperoni interi, cipolloni. Nonna Oregiadehsòj gli portava anche la polenta, preparata con una macchina tipo betoniera, per averla sempre pronta e nella quantità necessaria.”
“Nonno Attecécemel, per via della selezione naturale e artificiale, era un vero e proprio colosso anche rispetto alla media dei suoi contemporanei: alto oltre quattro metri, pesava quasi tre quintali di poderosi muscoli, solo sul davanti foderati da un morbido cuscinetto di grasso, del quale andava oltremodo fiero.”
“Le mani, ti ricordi le mani? Noi bambini ci faceva sedere uno per mano; ci diceva di attaccarci forte ai suoi polsi - grossi al pari di tronchi – e poi ci faceva salire e scendere come un condor che batta le ali per decollare. Una giostra in carne e ossa.”
“Quando non giocava con noi e non mangiava, produceva energia su scala planetaria: a cavallo di una bicicletta pachidermica, seduto sopra una sella mastodontica, pedalava pigiando su grossi pedali magnetici collegati a meccanismi che noi guardavamo senza capire. Il nonno parlava di un eccezionale moltiplicatore di potenza da lui inventato per caso, ma non ne seppi mai niente di più. Non volle mai svelarci il segreto, che qualcuno paragonò addirittura a quello della mitologica Coca-Cola.”
“Sì, pedalava per giorni e giorni come nemmeno quelli che millenni addietro si chiamavano recordman dell’ora. Anche le braccia intervenivano in questo processo creativo: spostavano ritmicamente avanti-indietro un grosso manubrio magnetico che svolgeva le stesse funzioni dei pedali. Per non annoiarsi guardava su un megaschermo vecchi film in bianco e nero, di quel genere che noi chiamiamo di archeo-fantascienza o di fantascienza a ritroso, che narrano quella che forse era un tempo la vita sul nostro pianeta. Nonno conosceva a memoria, perché ne andava matto, tutta la produzione di Ciccio e Franco, Alvaro Vitali, Bombolo, Er Monnezza, i Cinepanettoni e cose così. Diceva che gli davano una carica che neanche l’Ovomaltina, frase che ci è sempre rimasta misteriosa.
Riusciva a produrre tanta di quell’energia da bastare per i megaconcerti stellari ad alta tecnologia fotofonica dei Mink Freud.”
“Eh, che tempi… Quelli, con i loro suoni a frequenze ultraultra e infrainfra demolivano interi quartieri durante le loro esibizioni, ma nessuno se ne rammaricava, perché erano abitati da galeotti in ogni caso condannati a morte per reati gravissimi. Tipo abuso di funzioni cerebrali e spaccio di documenti obsoleti e non più pertinenti (vecchissimi libri, per lo più, ma anche film di Nanni Moretti, Bergman, Fassbinder e simili). I loro concerti venivano trasmessi in galattovisione, su megaschermi al plasmon dalle dimensioni di campi di calcio, così che pure le astronavi di passaggio potessero goderne. A debita distanza. I ricostruttori di tutte le galassie venivano in tal modo informati che c’era lavoro per loro e sborsavano fior di pianeti e sistemi solari per aggiudicarsi quelle megacommesse.”
“Il nonno, con pochi soci in affari, faceva girare l’economia, come diceva la loro pubblicità (era un fine umorista, lui), tanto che non di rado venivano convocati anche su altri sistemi solari. In poco tempo lui e la sua società, la Ultela & Pìrlela, divennero ricchi sfondati – sarà che lavoravano tanto da non aver tempo per spendere i guadagni realizzati.”
“Poi – ho ancora nelle orecchie, io cucciolo assetato di racconti, la voce di nonno Attecécemel – accadde. Gli era sempre piaciuto lasciarsi andare a bisbocce, unico diversivo di una vita dedicata al lavoro e alla famiglia. Lui e i suoi fedeli compari Giròlem, Gaméla, Masnòt, Franghen, Cifòla e Talgià devastavano – in senso buono - le dispense e le cantine dei ristoranti dove capitavano. Uomini all’antica, disdegnavano i moderni, ultraveloci distributori di cibo sintetico premetabolizzato, frequentando le vestigia del passato, quelle selezionate e segnalate dalla celeberrima rivista Majàabelàse. Nonna Oregiadehsòj aveva il suo bel da fare per tenerlo in riga quando mangiava a casa, per cercare di bilanciare le serate in trattoria. Una volta ficcate le gambe sotto il tavolo – le sue e quelle dei suoi degni compari – non c’era spettro di nonna che tenesse. Quella sera, quella fatidica sera, in particolare festeggiavano una megacommessa che li avrebbe resi proprietari di interi sistemi solari (forse mi sono scordato di dire che i loro compensi erano così elevati che venivano liquidati con pianeti o interi sistemi solari): avrebbero fornito energia alla tournée intergalattica dei Mink Freud. Impegno massacrante che sarebbe durato alcuni anni, ma al termine del quale si sarebbero potuti ritirare definitivamente dall’attività.”
“Mangiarono e bevvero – ricordi, quel racconto quasi epico? - questo mondo e quell’altro, incuranti dei sensori che segnalavano ad ognuno di loro che aveva superato qualsiasi livello di guardia. Il microlaboratorio di auto-analisi che avevano incorporato nel polso faceva lampeggiare e singhiozzare tutti gli allarmi. Le voci preregistrate delle rispettive mogli perforavano i timpani per quanti decibel raggiungevano. Ma loro erano ormai ciechi e sordi ad ogni sollecitazione che non fosse quella delle loro papille gustative. Nonno Attecécemel aveva bevuto una damigiana più del solito, tanto che, al momento del brindisi finale, per sottolineare il suo entusiasmo, calò sulla tavola uno dei suoi pugni-maglio e la fracassò come fosse una sottile lastra di ghiaccio. Questa volta il segnale fu raccolto: era il momento di uscire all’aria aperta per spegnere almeno un po’ i ribollenti spiriti. Prima di lasciarsi trasportare a casa…”
“… dalle loro vetture magnetiche. Non belle ma funzionali, si basavano sul principio della calamita: il garage di casa fungeva da magnete e le auto venivano riportate ad esso come semplici pezzi di ferro, lungo percorsi prestabiliti e servoassistiti, ognuna tarata su una frequenza propria. Comode, molto comode, specie in frangenti come quello di cui si narra. Rintracciare la tua vettura era facile, perché emetteva segnali captati da un rilevatore che si portava come un anello. Poi dovevi solo infilare il tuo corpaccione nell’abitacolo, premere un tasto e… potevi pure cadere in letargo: l’irresistibile attrazione domestica ti riconduceva all’ovile. Era stato messo a punto proprio per evitare le cosiddette stragi del sabato sera.
Uscirono, i soci di bisboccia, in aperta campagna: ne erano state conservate chiazze sparse, perché non ci si scordasse del passato, delle tradizioni. Quale luogo migliore per piazzare quelle vestigia del passato eno-gastronomico? Stelle non se ne vedevano più da secoli, per via del multiforme inquinamento. Però, la notte, l’immenso involucro protettivo trasparente, impalpabile, che avvolgeva la Terra si trasformava in quello che un tempo si chiamava planetario. Per gli innamorati e gli ubriachi era un’autentica volta celeste stellata, che ruotava intorno alla testa alla velocità di un frullatore. Con le medesime conseguenze. Reggendosi a fatica e ridendo come adolescenti nell’età della stupidéra, fecero quello che tutti gli ubriachi maschi fanno una volta all’aperto:”
“urinare senza ritegno. Urinare ubriachi ridendo sguaiatamente: forse questo il vero filo rosso che porta dal goffo uomo delle caverne ai mastodonti ipertecnologizzati dell’Era intergalattica. Nonno Attecécemel, rilassata la vescica, percepì davanti a sé una misteriosa nubecola luminosa intermittente. Subito pensò a un fastidio visivo provocato dall’eccesso di alcol che gongolava nel suo sangue. Lampyris noctilucae ne aveva viste mai, ne ignorava persino l’esistenza: solo da poco era in corso un esperimento di reinserimento delle volgarmente dette lucciole nell’ambiente agreste. Sempre allo scopo di rilanciare le tradizioni, di far rivivere scampoli di quel passato che tanto affascinava. Vecchia storia…”
“Eh sì, millenni addietro, raccontava zio Miaperlaquàl (l’intellettuale di famiglia), ci fu una civiltà già molto evoluta, detta dell’Acciaio Inox, che, ricca e tecnologica, sentì esplodersi dentro un irrefrenabile bisogno identitario. Eh, così parlavano all’epoca, pare fossero tutti molto colti e raffinati. Eppure, e nonostante ci tenessero molto alla loro prestanza fisica, i virili maschi presero a girare con una specie di gonnella a riquadri: dicevano che fosse un emblema dei loro presunti antenati. In testa montavano elmi cornuti, parlavano di elfi, lanciavano tronchi e deturpavano l’etere con rutti ciclopici che sterilizzavano i moscerini nel raggio di un chilometro. Per non parlare della potenza di fuoco che esprimevano emulando con le chiappe le trombe del Giudizio. Pare riuscissero a sfruttare questa loro peculiarità anche nell’ambito dei continui conflitti che esplodevano sia tra di loro che con i confinanti extraidentitari. Finché un giorno la cosiddetta Convenzione di Ginevra condannò e mise al bando l’uso delle armi chimiche. Si limitarono allora ad usarle nelle lotte intestine. Quante belle cose conosceva lo zio, cose che quasi solo lui sapeva.
Però era successo che quelle fiere ma raffinate genti avevano sterminato…”
“… le lucciole, impedendo alle generazioni dei loro discendenti di sentirne anche solo parlare, oltre che di goderne lo splendore. Nonno Attecécemel agì d’istinto, sulle ali dell’estro etilico. Le sue mani, come possenti benne, dragavano l’aria intorno, facendo incetta di lucciole, scaricate a decine nelle fauci dell’orco ‘Mbreagù. Giròlem, Gaméla, Masnòt, Franghen, Cifòla e Talgià, imbambolati, guardavano il nuovo gioco del loro capo: cosa cavolo erano quei microbi luminosi che adesso, terrorizzati, sciamavano in tutte le direzioni creando scie fosforescenti di grande effetto sulle loro menti supereccitate?”
“Poi accadde: nonno, in evidente stato di alterazione psicofisica, cominciò a sgomentare l’aria con peti in crescendo rossiniano (lui stesso, secoli addietro, ci aveva regalato questa icastica espressione). All’inizio erano peti, ma via via si andavano trasformando in scoregge degne di un tornado. Il resto della cricca, sulle ali dell’entusiasmo emulativo, diede vita ad una sinfonia dodecafonica che i demoni della notte adottarono subito come loro inno di battaglia. Giunsero echi perfino ai sofisticatissimi radiotelescopi del pianeta Coldezùf nella galassia detta dell’Apparato del Golgi. Un locale maestro concertatore, tal Umnnagumma, cultore di musica astropatafonica, ne trasse una memorabile suite dal titolo ‘A suocerful of secrets’.”
Ma torniamo alla nostra banda di pachidermi debosciati. Pencolavano fra scoppi di risa e mefitiche esalazioni, quando videro il loro Capo, in un crepitio di gruvierica marmitta, emettere dal fondoschiena un incandescente fascio di luce e tosto…”
“… eclissarsi alla loro vista. Quattro metri per tre quintali dissolti nel nulla. Gli ci volle non poco, negli uffici della Galaxpol, per rendere almeno intellegibili i loro racconti. Erano arrivati stravolti, farneticanti; sudavano alcol e il loro alito aveva indotto la schizofrenia nei cani antidroga. Berciavano tutti insieme, gesticolando come antichi mercanti arabi morsi dalla tarantola della contrattazione (similitudine di zio Miaperlaquàl). I galattopoliziotti, uomini e androidi rotti a ben altro, li sottoposero ad innovative terapie d’urto: prima, una violenta doccia gelata; poi, un litro a testa di caffè espresso bollente e amaro. Rimasero leggermente sull’agitato ma almeno riuscirono a fornire un quadro dettagliato dell’accaduto – omettendo, per innata modestia, il numero di damigiane…”
“… rese disponibili per il riutilizzo. I galattopoliziotti, superato il primo, professionale, scetticismo, furono costretti a prendere atto della realtà: i racconti dei sei colossi, raccolti uno per uno separatamente, coincidevano in tutto; inoltre, particolare non trascurabile ai fini dell’indagine, del nonno non c’era traccia.
Esclusa ogni ipotesi di rapimento (l’esercito dei rapitori necessari non sarebbe sfuggito nemmeno ai più incalliti etilisti delle più degradate bettole d’Enotria); scartata la fuga romantica o per debiti, non restava che ammettere di non sapere…”
“… che pesci pigliare. “Brancolavano nel buio”, come disse con tono arcano la nonna, ricorrendo ancora una volta ad una delle fantasmagoriche espressioni tanto care al pur concreto nonno. Fu diramato un cybergramma a tutte le polizie di tutte le galassie, con un rapporto sull’accaduto (omettendo per amor di sintesi ogni riferimento ai peti); un ologramma (compresso) dello scomparso; il codice DNA e il Ph cutaneo. Lo ritrovarono due settimane dopo, dalle parti della Galassia detta dell’Occhio Nero, nella costellazione della Chioma di Berenice. Dimagrito, affamato faceva l’astrostop. Me lo rivedo come fosse oggi…”
“.. povero nonno Attecécemel: pareva il fantasma di se stesso, con quei poco più di due quintali che gli erano rimasti. Faticava a parlare. Anche riprendere a mangiare non fu per lui uno scherzo: nonna Oregiadehsòj gli preparò più e più bacili di zabaione e decine di uova d’oca (sbattute, affogate, alla coque). Appena si fu ripreso (anche noi demmo il nostro contributo, leggendogli ad alta voce l’ ‘Odissea’ e ‘La storia vera’ di Luciano, in e-book) sciorinò alla Galaxpol un racconto non meno fantastico di quelli che gli avevamo offerto noi. Dopo aver ingoiato (quanti? non l’avrebbe saputo dire)…”
“… un bel po’ di quei minuscoli insetti luminosi, si era sentito i visceri come un vulcano quando sta per eruttare, salvo che la sua eruzione si sfogava verso il basso. Di pari passo vedeva il ventre dilatarsi e farsi luminescente; poi, un’esplosione secca e la pancia si sgonfiò di botto e la luce sparì ma con la coda dell’occhio vide un lampo dietro le gambe. Uno strappo violento e si trovò proiettato nello spazio ad una velocità mostruosa, senza provare alcun dolore, se si prescinde da un fastidioso cerchio alla testa e da un deprimente senso di vuoto allo stomaco. Svenne. Riaprì gli occhi…”
“… e si vide sdraiato su uno squallido asteroide ricoperto di un morbido strato di polvere stellare (rintracciatolo in seguito, si scoprì che aveva subito una decisa deviazione dal suo asse di rotazione). Buio. Silenzio. Nessuno. Nulla da mangiare né da bere. Non funzionava il cybercell: non c’era campo.
Quant’era durato il viaggio? Quant’era rimasto svenuto? domande senza risposta. Memore di racconti di fantascienza della sua gioventù (nessun è perfetto), per sfuggire a quella situazione mortifera si indusse a tentare l’astrostop. Ma nella notte siderale lui era un neo nero su un nero fondale. E comunque non passava nessuno, porca paletta!” (quando era lontano dalla nonna, si lasciava andare spesso a espressioni colorite, il nonno, importate dai suoi numerosi viaggi interstellari). Si era sentito progressivamente svuotare…”
“… di tutta la sua energia, che non era poca cosa. Buio, silenzio, digiuno, inattività totale lo resero però lucidissimo. Aveva riflettuto a lungo su quanto gli era successo: scartata l’ipotesi dell’intossicazione eno-gastronomica (evento impossibile in un locale segnalato da Majàabelàse), era giunto alla conclusione che l’elemento scatenante doveva essere stata l’ingestione di quei maledetti microbi luminosi. “Lucciole, si chiamano lucciole, signor Attecécemel”. “Chiamatele come volete, quelle bestiacce mi hanno rovinato la digestione”. “E l’hanno sparata nello spazio interstellare? sa dove si trovava quando la pattuglia robotica di Craggammore-on-the-Rocks l’ha individuata su quell’asteroide alla deriva? Beta Comae Berenices …”
“… dista da noi ventisette anni luce: uno sputo, certo, per le nostre astrolance, ma lei ci sarebbe arrivato a piedi! e in poco più di ventiquattr’ore! se lo ricorda, vero, che un anno luce fanno 9.460.800.000.000 km? Lei capisce, vero, che noi nutriamo qualche lieve perplessità su tutta la vicenda?”. “Poco me ne cale (il nonno a volte riesumava dalla sua poderosa memoria scampi di una lingua antica e musicale). Quel che è successo io ve l’ho detto: il perché e il come, non sono in grado di dirvelo adesso. Ma giuro che lo scoprirò”.
La Galaxpol lo lasciò andare, non avendo contravvenzioni da elevargli:…”
“… nessun Codice prevedeva l’eccesso di velocità pedonale.
Tornato a casa, il nonno si chiuse nel suo studio e in se stesso per interminabili giorni, trascurando lavoro, cibo e nonna. Che però non cessava di alimentarlo come lei sapeva, senza dargliene l’impressione. Una calda notte egli ci chiese, a noi nipoti, di seguirlo: uscimmo recando un grosso contenitore di vetro, sull’imboccatura del quale aveva steso una fitta, sottile rete. Ci portò nel luogo dove era avvenuto il suo ‘lancio spaziale’ e ci chiese di aiutarlo a catturare quante più lucciole potevamo. Non capivamo, ma la cosa era divertente e collaborammo con entusiasmo: per noi era libidine pura osservare le evoluzioni di quel minuscolo popolo lampeggiante. Tornammo a casa a notte fonda, con il vaso…”
“… fluorescente a intermittenza. Ma non era il godimento di quella luce che lo interessava: si chiuse di nuovo in camera, con le lucciole e ogni tanto chiedeva alla nonna di procurargli questo o quel cibo. Lei, contenta che al marito fossero tornati l’appetito e la voglia di variare, lo assecondava con entusiasmo.
Per tutti noi, famigliari e amici, il mistero si infittiva: per fortuna, concordavamo nell’escludere ogni forma di pazzia: il vecchio Attecécemel sembrava totalmente assorto in pensieri a lui solo noti, come un filosofo dei tempi antichi.
Quanto tempo trascorse così? settimane…? Non ricordo, ma una notte udimmo un calpestio che voleva essere discreto ma non lasciava dubbi sulla paternità dei piedi che lo producevano. A seguire, nel buio silenzio del prato antistante la nostra grande casa, si udirono una serie di scoppiettii, poi un sibilo, poi più nulla. Come un solo organismo, ci ritrovammo tutti contemporaneamente sul prato: il nonno non c’era, e non c’era nel suo studio e non c’era in camera sua e non c’era in bagno e non c’era in nessun altra parte della casa. Vo-la-ti-liz-za-to, di nuovo. Cademmo nel più tetro sconforto: se l’auto era nel garage, come si era allontanato così in fretta? e perché?…”
“… e per dove? Bastarono meno di ventiquattr’ore per avere risposta. E non fu la Galaxpol a darcela, questa volta, ma nonno Attecécemel in persona; o meglio: la sua voce. Giunse proprio al mio apparato cyberpolisensor uno sbiadito messaggio scritto: “Sto bene. Torno subito”. Seguiva la sua inconfondibile firma: un pedale circondato da saette. Nemmeno il tempo di esaurire gli stuporosi rallegramenti, che udimmo in giardino un sibilo e un tonfo sordo, che fece tremare la casa con magnitudo 3.8. Ci precipitammo e… da una nuvola di polvere emerse un astronauta impegnato a recuperare la verticalità. Prima ancora che si togliesse la tuta spaziale, abbracciammo il nonno con le lacrime agli occhi, chiedendogli tutti insieme dove fosse finito e come. Ne seguì un racconto che ci fece dubitare, in alternanza, della sanità mentale ora nostra…”
“… ora del nonno. Lui dichiarò in premessa di non essere uno scienziato, ma un empirico, un praticone, per dirla in parole povere. Proprio per questo non gli andava giù quello che era successo; o meglio: non poteva tollerare che fosse successo senza che lui se ne rendesse conto e senza coglierne le modalità. Ma come: uno entra nella Storia dell’astrotrasporto, e manco è in grado di riproporre l’esperienza? Aveva perciò raccolto tutti gli elementi in suo possesso; li aveva suddivisi per categorie (metodo da commerciante, ma sempre efficace); li aveva analizzati uno per uno e poi connessi fra di loro, fino a sentirsi la testa pesante come un asteroide indigesto. Poi, non venendone a capo, buttò a mare logica e razionalità e si trasformò in quello che le vecchie leggende chiamavano Mago (‘Alchimista’ suggerì zio Miaperlaquàl, che non amava le approssimazioni). Ma torniamo a nonno Attecécemel: assunta la forma mentis del Mago, prese a combinare fra di loro elementi, cibi e bevande del tutto incongrui, pescandoli fra quelli presenti nella ormai fatidica cena dalla quale tutto ebbe origine. Poi se li mangiava, in proporzioni e porzioni variabili, appuntando il tutto con scrupolo notarile. Per sua fortuna i menù di quel tipo di trattoria venivano gelosamente conservati e contenevano anche l’indicazione degli alimenti base che venivano utilizzati per ogni singola preparazione. Aveva tutto a disposizione, ma non ne sortiva alcunché, se non a volte dei fastidiosi mal di pancia che poi deturpavano l’equilibrio dell’ecosistema. Una notte di prostrazione…”
“… ebbe quella che fu, anche alla lettera, una vera e propria illuminazione. Esaminando per l’ennesima volta tutta la sequenza della serata (quel che ricordava…) di colpo gli tornò in mente di aver ingoiato a fiotti quella specie di pulviscolo luminoso che poi apprese chiamarsi lucciole. Era contro ogni logica, totalmente insensato, ma ormai… Come sapevamo, organizzò la spedizione notturna per recuperarne una quantità adeguata; quindi iniziò ad ingoiare anche quelle, in associazione con vari cibi. In altri tempi gli avrebbe fatto schifo anche solo l’idea, lui che era un così scrupoloso cultore della tradizione e odiava il modernismo in cucina, ma a quel punto…
Ce la fece breve: una notte, dopo l’ennesimo abbinamento infruttuoso, uscì in giardino, per godersi lo spettacolo del planetario. Da quando aveva indossato i panni del Mago, gli era tornata la nostalgia, la poesia dei cieli notturni stellati. E pazienza se li sapeva artificiali.
Distrattamente, portò con sé una scatola di fagioli borlotti, che, sopra pensiero, mangiucchiò mentre ripassava le costellazioni. Vecchi ricordi scolastici, da secoli lasciati a languire in uno scantinato della memoria. Nostalgia d’infanzia, di quando i genitori, per festeggiare i suoi due metri, gli regalarono il primo magneto-velocipede…
Piccoli punti luminosi intermittenti gli svolazzavano intorno, quasi beffardi. D’istinto aprì la manona e ne fece una retata senza pietà; con gesto quasi stizzito, se li cacciò in bocca. Li aveva già scordati, quando il ventre gli si dilatò illuminandosi un poco. Poi, una serie di scoppiettii, un lampo alle spalle e…”
“… appiattitosi il ventre, si trovò steso a terra nel giardino del vicino. L’aria frizzante della notte lo convinse che non stava sognando. L’ARIA!!! L’alchimista che ormai covava in lui aveva alfine scovato l’elemento mancante alla pozione magica, l’anello mancante della catena! Nelle case da tempo abbiamo aria depurata e rigenerata: a quanto pareva, l’atmosfera inquinata unendosi alle lucciole e ai fagioli provocava quella miscela dal potenziale incalcolabile. Nonno Attecécemel stentava a crederci, ma decise di ripetere l’esperimento: lì, senza indugi, e al diavolo la razionalità e la scienza. Funzionò!
Si sentiva in preda a un orgasmo senza fine, ma anche a un imbarazzo cosmico, lui uomo tecnologie, navigatore interstellare e produttore di propulsione altamente innovativa. Tenendosi dentro un esplosivo mix di gioia e soddisfazione, non disse niente a nessuno.…”
“… Riprese a studiare combinazioni e percentuali; poi, pianificò l’esperimento decisivo. Procuratasi una tuta spaziale e un cybercell di ultimissima generazione, calibrò lucciole e fagioli e studiò, in base ai dati del primo viaggio, una zona più o meno nei medesimi paraggi. Portandosi al seguito un’adeguata scorta di… propellente per il rientro (compresa una fiasca sigillata di aria inquinata), andò in giardino e… partì! Mancò il bersaglio di solo un paio di anni luce, ma per il resto andò tutto secondo previsioni. Il rientro fu più facile, perché…”
“… sapeva con esattezza dove voleva andare. Così disse il nonno. “Quasi come il barone di Muccause” (o un nome simile), così disse zio Miaperlaquàl, che, essendo l’intellettuale di famiglia, non mancava mai di riferimenti letterari.
A noi, sbalorditi e increduli ma felici, porse da ammirare la pietra, mai vista prima, che si era portata dall’asteroide dove era atterrato. Festeggiammo con un banchetto degno del trionfo di un imperatore romano o del ritorno a casa di Ulisse (fonte: sempre la medesima). Il nonno ci impose il silenzio più assoluto, con chiunque, finché non avesse perfezionato la sua scoperta-invenzione. Di fronte a un simile evento rivoluzionario, c’era il rischio che qualcuno si impadronisse del segreto per commercializzarlo.
Un mese dopo ne fece partecipi in galattovisione tutti i mondi noti; non mancarono sorprese anche per noi. Zio Miaperlaquàl l’aveva convinto ad andare oltre sulla strada dell’anti-scienza. Gli aveva insegnato alcuni antichissimi esercizi di respirazione e meditazione: se fosse riuscito a concentrarsi a fondo su un corpo celeste, visualizzandolo, interiorizzandolo:…”
“… magari avrebbe trasformato il suo organismo in un potentissimo navigatore interstellare. Per aiutarlo, gli fece dono di un antichissimo libro (quasi una novità, per il nonno, uomo d’azione) con le tecniche segrete di certi Sufi (boh…?).
Funzionò! e funzionò al punto tale che nonno Attecécemel poté trasformare in ulteriore impulso motore anche la sua energia mentale, il suo pensiero, sempre grazie alla preistoria del pensiero umano. Inventò il propellente foto-gastro-neuronico, brevettato e protetto nell’Universo intero. Con il pensiero, con la fantasia ci si trasferisce ovunque in un batter d’ali: lui, materializzava questi viaggi moltiplicando la velocità della luce per quella del pensiero. Non c’erano più limiti agli spostamenti! Il nonno rifiutò qualsiasi stratosferica offerta per vendere la sua scoperta-invenzione: si limitò a perfezionarla…”
“… e a sperimentarla su e con i suoi soliti soci. Insegnò anche a loro la tecnica di concentrazione-visualizzazione dei Sufi. Quando l’ebbero ben assimilata, procedettero ad un clamoroso esperimento: scarrozzare negli spazi siderali un colossale astrocargo, sfruttando il propellente ormai detto ‘di Attecécemel’. (Si trasformarono, disse zio Miaperlaquàl, nelle renne di Babbo Natale in versione spaziale. Noi gli credemmo sulla parola, perché nulla sapevamo di quella faccenda).
Funzionò. Il nonno diede vita ad una innovativa impresa di trasporti: rimorchiava galassie giovani, su indicazioni dell’Istituto Autonomo Galassie Periferiche, negli spazi lasciati vuoti da quelle collassate. Un successone, ma… come spesso accade, fama e denaro gli diedero alla testa: lasciò nonna Oregiadehsòj e fuggì con una sgallettata del pianeta Mihsignù nella Galassia dei Ciciaòe. Non prima di aver rimorchiato e abbandonato la sua personale galassia in un angolo sperduto dell’Universo, Contrada Per-Das-Defogu. Con tutta la famiglia sopra, noi compresi. Non lo vedemmo più.”
“Come diceva sempre nostra madre Ociocherìe: tutti bestie, i maschi terrestri. Fortuna che il babbo veniva dal pianeta Ahskehsmìa. E fortuna che quell’animale di nonno Attecécemel ci parcheggiò in zona disco, senza mai aggiornare l’ora. Così adesso, dopo due soli secoli di sosta vietata, vengono a portarci via con il galattocarroattrezzi. Guidato da Giròlem, Gaméla, Masnòt, Franghen, Cifòla e Talgià. Si torna a casa!”
Rehspurkìna e Sgiunfemmìa, sorelle gemelle, si rizzano sulla poderosa coda e sventolano le loro otto paia di arti superiori in direzione dei vecchi amici che vengono a recuperarle. Lasciandosi alle spalle una lunga scia di peti lampeggianti.
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