Come anticipato nell’appuntamento della settimana scorsa, quest’oggi ci dedicheremo alla creazione di qualche location per la storia degli alchimisti, cercando di mettere in pratica quello che si è detto a livello teorico..
Per l’occasione ho pensato di proporre tre luoghi molto diversi che presentano dettagli e problematiche agli antipodi tra loro. In questo modo spero di riuscire a mostrare le differenze tra i vari casi.
Se avete letto l’articolo numero 12 ho già accennato all’Artiglio dell’Orso definendolo come uno spuntone di roccia che si proietta sul mare. Dovrebbe essere un luogo nel quale Rose, la protagonista, si reca spesso, quando sente la mancanza del padre per poter in qualche modo rivolgergli un pensiero o semplicemente stare in compagnia del mare.
Questo luogo presenta due problematiche parecchio ostiche per un autore. Prima di tutto è uno spazio aperto con un panorama molto ampio: è quindi impossibile utilizzare la tecnica del personaggio che si aggira nell’ambiente per poter rendere la descrizione dinamica. In secondo luogo, è una location dove la protagonista si reca abitualmente e quindi ne conosce i dettagli: è impossibile utilizzare la tecnica del personaggio sorpreso che pone attenzione a quello che vede e sente e quindi trasmette tutto al lettore. In definitiva non possiamo utilizzare il punto di vista di Rose, se vogliamo descrivere in dettaglio questo luogo, a meno che non riusciamo a trovare un motivo per cui lei debba interessarsi dei dettagli che vede tutte le volte che si reca lì.
In questo caso abbiamo quindi due soluzioni percorribili:
– Fare in modo che Rose, questa volta, trovi qualcosa di diverso che la porti a confrontare quello che vede con il suo ricordo e quindi abbiamo una scusa per descriverlo
– Abbandonare il punto di vista di Rose, almeno per un po’, e librarci in volo come un uccello.
Io tenterò di percorrere la seconda strada e sfruttare queste problematiche a mio vantaggio per realizzare una descrizione originale.
Quel giorno il mare era burrascoso. Le onde si rincorrevano velocemente con la loro cresta bianca a fare da contrasto al blu intenso e cupo delle profondità. Le nubi grigio scuro si addensavano all’orizzonte e inesorabilmente solcavano il cielo nella sua direzione macchiando e incupendo l’ardente chiarore arancione che il sole del giorno morente irradiava con i suoi ultimi attimi di vita, prima di cedere il passo al buio. La piacevole brezza della sera aveva già lasciato il posto ai venti più impetuosi che annunciano la tempesta ed il tempo stava per scadere, sarebbe dovuto ritornare a casa già da un bel pezzo, ma non poteva farlo a mani vuote.
Rivolse lo sguardo verso l’alta scogliera costellata di buchi ed anfratti dove l’aspettavano e poi di nuovo verso il fronte temporalesco che incombeva minaccioso. Aveva ancora un’altra decina di minuti scarsi. Decise di tuffarsi un’ultima volta ma quando riemerse qualche secondo dopo fu evidente che non aveva avuto fortuna. Sperò che la sua compagna fosse già tornata e senza indugiare oltre spiccò il volo.
Man mano che prendeva quota il vento si faceva più insidioso, ma non era ancora sufficientemente forte da non permettergli di controllare il volo. Compì alcuni giri per poter catturare, con le ampie ali, delle correnti ascenzionali che lo portassero più in alto e quando fu soddisfatto puntò dritto verso quello spuntone di roccia che, dalla scogliera, si proiettava verso il mare. Gli piaceva atterrare lì, era stretto ma lungo e poi gli consentiva di dare un’ultima occhiata al mal tempo che era oramai sopraggiunto prima di sparire nell’alcova della scogliera che, insieme alla sua compagna, aveva scelto come luogo per nidificare. Durante la picchiata scorse una figura, sulla punta dello sperone di roccia: una ragazza. Sempre la stessa ragazza che di tanto in tanto si recava lì. All’inizio aveva provato a scacciarla, ma poi, visto che la giovane non aveva cattive intenzioni, aveva preso a tollerarla e come lui anche tutti gli altri gabbiani della colonia. Se ne stava lì, come sempre, con le gambe penzoloni sul baratro a contemplare l’orizzonte, anche in quel momento che le prime gocce di pioggia, quelle più leggere, l’avevano raggiunta trasportate dal vento. L’acquazzone era imminente, ma lei non accennava ad andare via.
Colto da una sensazione mai provata, il gabbiano atterrò a pochi centimetri dalla ragazza e la squadrò. Lei aveva seguito tutto il suo volo con gli occhi e quando le fu accanto gli rivolse la parola.
– Giornata sfortunata, eh? Niente pesci per i tuoi piccoli oggi?
Continuò a squadrarla, non le era mai stato così vicino
– Tieni, prendi questo. – disse ancora la giovane porgendogli un tozzo di pane che aveva estratto da una piccola sacca.
Il gabbiano osservò il pane, gracchiò un ringraziamento e con un movimento repentino del capo le strappò il cibo di mano. Le rivolse un ultimo sguardo e poi trotterellò verso un anfratto della scogliera da dove proveniva un pigolare incessante di uccellini affamati.
Rose seguì con gli occhi il pennuto, sorridendo. Un bagliore accecante, seguito a brevissima distanza da un rombo le ricordò che il temporale era giunto. Goccioloni di pioggia presero a cadere sempre più velocemente e, finalmente, la ragazza si decise ad andar via. Ripose delicatamente sotto la camicetta il ciondolo azzurro che portava al collo, sospirò, mentre la pioggia le incollava i capelli alla fronte.
– Ciao papà – disse ad alta voce, poi si voltò e corse via, diretta verso casa.
Se avete letto l’articolo numero 13, quello scritto da Lissa, ricorderete sicuramente la scena di Alette, una giovane alchimista, che entra in una cella e trova Veritt, una persona per lei importante, in condizioni pietose.
Lissa si è concentrata, giustamente, solo sugli aspetti sentimentali della scena e sul carico emotivo che essa deve portare al lettore, ma una buona descrizione dell’ambiente, prima che la giovane alchimista scopra cosa sia accaduto al prigioniero potrebbe amplificare le emozioni trasmesse. Questo è il tipico caso in cui si possono far giungere al lettore informazioni indirette descrivendo la stanza dove avviene la scena. Nello specifico, il complesso dovrebbe trasmettere dolore, disperazione e un senso di rassegnazione.
– Sono qui per vederlo. – disse con fermezza Alette alla guardia che le sbarrava il passo – e questa è l’autorizzazione!
Porse un foglio di carta all’uomo che lo squadrò con occhio critico. La firma di Recro era inconfondibile, come anche il suo sigillo alchemico. Dopo qualche secondo arrotolò il documento e lo ripose in un cassetto della squallida scrivania che si trovava in un angolo della stanza e senza proferire parola imboccò una ripida scalinata che conduceva alle segrete.
Alette lo seguì stando ben attenta a non poggiarsi alle pareti strette ed umide. Una serie di pesanti porte di legno si susseguivano su ambo i lati del corridoio e di tanto in tanto Alette riusciva a cogliere un lamento o rumore di catene scosse con violenza provenire dall’altra parte.
La guardia intanto si era fermata accanto ad una delle porte e stava armeggiando con la serratura. La ragazza era impaziente ed i pochi secondi che furono necessari per aprire la porta le sembrarono non finire mai.
– Ecco – disse il carceriere quando ebbe finito, permettendo ad Alette di avvicinarsi.
La cella era buia, fatto salvo per un unico raggio di luce che filtrava da un piccolo lucernaio rotondo posto a tre metri di altezza sulla parete di fronte. Il fascio tagliava esattamente a metà l’angusta stanza lasciando nel buio più completo tutto il resto.
La ragazza fece per entrare, ma incappò in una barriera d’aria alchemica che si piegò verso l’interno della cella, prima di respingerla con un movimento elastico. L’immagine che filtrava attraverso quello strato di aria più densa in movimento distorse in forme grottesche il fascio luminoso all’interno finché non si stabilizzò.
– Sicurezza aggiuntiva – farfugliò la guardia.
Alette poggiò una mano sulla barriera, si concentrò un attimo ed attuò una trasformazione, riducendo la densità dell’aria finché la protezione non si dissolse. Nel momento stesso in cui la barriera crollò, una tanfo di urina ed escrementi investì la ragazza che si portò la mano alla bocca e dovette trattenere un conato.
La guardia sogghignò.
Lentamente Alette mosse un paio di passi ed entrò. Per quel poco che poteva vedere, la cella era completamente scarna, non vi era nemmeno un pagliericcio per poter dormire e l’unica compagnia che aveva avuto Veritt era un’enorme macchia di muffa che ricopriva interamente la parete che dava sull’esterno.
Alette percepì la sua presenza nell’angolo più buio della stanza, si nascondeva anche adesso, questa consapevolezza le fece male al cuore. Non resistette. La ragazza rischiarò la prigione buia con una sfera di luce chiara, delicata, che si posò nella cella angusta illuminando i bei tratti di Veritt deturpati dalle percosse, i suoi occhi chiusi e ormai ciechi. Lente, ma copiose, le lacrime presero a bagnare il viso di Alette mentre un grido di rabbia e dolore incrinò il silenzio, segnando l’inizio della sua vendetta.
Ricordando che Vincent è un alchimista in fuga, il suo laboratorio altro non è che una stanza in casa sua, ben nascosta da occhi indiscreti nella quale porterà la nostra Rose dopo averla accettata come apprendista.
In questo caso possiamo contare sul fatto che la ragazza, entrando per la prima volta in quella stanza, si focalizzi sui dettagli, ed essendo uno spazio ristretto possiamo farla aggirare tranquillamente. L’ambiente dovrebbe quindi trasmettere curiosità, speranza, ma anche pericolo e mistero, quindi inseriremo degli oggetti che incarnino questo tipo di sensazioni per Rose.
– Kimi, dai il benvenuto alla nostra nuova apprendista! – disse allegramente il vecchio Vincent mentre entrava, seguito da una timorosa Rose, che non aveva mai messo piede nella casa di un alchimista, figuriamoci nel sul laboratorio.
Un miagolio distratto provenì dal buio più completo di quella stanza.
– Gli piace l’oscurità, passa ore qui dentro quando non ci sono. – spiegò Vincent mentre creava una piccola sfera luminosa in una mano.
Rose era ammutolita, da un momento all’altro il vecchio tutto fare, l’uomo che aggiustava tutto per gli abitanti del posto si eta trasformato: aveva dismesso l’abito di eccentrico solitario che parla al suo gatto e di colpo i suoi discorsi acquisivano più senso ed accendeva sfere luminose con le mani.
Vincent guidò la sferetta verso la parete a colpire un paio di lanterne appese che, a contatto con la “bolla di fuoco” si accesero rischiarando la stanza. Soddisfatto, l’alchimista raggiunse la sferetta che ancora fluttuava e con la punta del dito la dissolse, poi si voltò verso la ragazza.
– Che te ne pare? – chiese gioviale.
Rose era impegnata nella contemplazione di quella stanza, con gli occhi sgranati e la bocca semi aperta. Non rispose, ma la sua espressione fu per l’alchimista il chiaro segnale di averla impressionata. Vincent sorrise ed infilò la testa in un armadietto per cercare chissà cosa.
Le pareti erano cariche di mensole traboccanti di ingredienti e strumenti alchemici. Ampolle, alambicchi, pestelli e fornellini spuntavano ovunque misti ad attrezzi che Rose non aveva mai visto e di cui non conosceva il nome. Il tutto era in disordine, accanto alle foglie di cardo essiccate sul ripiano a destra c’erano dei cubetti di metallo, forse rame, e lì vicino un barattolo con degli scarafaggi vivi all’interno. Sulla mensola inferiore invece vi erano riposti in malo modo dei libri, alcuni dei quali ingrigiti dalla polvere.
Rose si avvicinò all’enorme banco da lavoro al centro della stanza che non era da meno. Non vi era un centimetro quadrato di spazio libero affollato com’era da reagenti alchemici. La ragazza fu attratta da una serie di ampolle contenenti liquidi di colori diversi e stranamente poste in ordine. Ne prese una rosa fosforescente per vederla più da vicino e notò che se capovolta, quel colore lasciava il posto ad un verde acido molto minaccioso, mentre quando veniva rimessa dritta, ritornava di quel bel rosa. La ripose e ne prese un’altra di colore blu elettrico che però se capovolta non reagiva come la precedente.
– Dovresti stare attenta con quella. – disse Vincent avvicinandosi e prendendole l’ampolla dalle mani – se la scuoti troppo potrebbe esplodere!
Rose lo guardò spaventata, ma capì dal suo sorriso che la stava prendendo in giro. Sorrise a sua volta e continuò ad aggirarsi per il laboratorio passando davanti ad una collezione di barattoli pieni di parti di insetti ed uno scaffale con tanti cristalli di colore e taglia diversa. Prese quello che le sembrava un diamante grosso quanto un pugno.
– Non ci pensare nemmeno – la interruppe Vincent – non vale nulla, l’ho creato io e non è un vero diamante.
– Oh! – esclamò delusa la ragazza riponendo la gemma.
– Allora, sei ancora sicura di voler diventare un’alchimista? Dovrai studiare duramente ed imparare ad usare tutti gli strumenti che vedi in questa stanza, per non parlare della conoscenza perfetta di tutti i reagenti e di come è composta la materia. Impiegherai anni.
– Sì! Certo, che voglio diventare un’alchimista – rispose Rose determinata.
– E allora, fossi in te, comincerei a mettere in ordine questo posto – rispose sorridente Vincent estraendo da dietro la schiena una scopa ed uno straccio per lavare i pavimenti e porgendoli alla ragazza. – In cortile troverai una fontana con un secchio per l’acqua e se fossi in te non proverei a scoprire cosa c’è sotto quel telo nell’angolo, potresti vomitare.
Così dicendo l’alchimista uscì dal laboratorio, seguito dal suo gatto, lasciando Rose sorpresa, delusa e senza parole.
Per oggi ci fermiamo qui. Nel prossimo episodio parleremo delle scelte stilistiche più avanzate come quelle inerenti alla velocità della narrazione o al rappresentare i punti di vista diversi dei personaggi.
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