Certi libri vanno letti nel momento giusto, quel momento in cui si è davvero pronti ad accoglierli. Come fai a scoprire qual è il momento giusto? Per me è stato l’aprire una pagina a caso del Linguaggio della notte e trovare il pezzo in cui la Le Guin discute la genesi dei Reietti. Lì ho capito: i tempi sono maturi per affrontare questo libro.
Titolo | I reietti dell’altro pianeta |
Autore | Ursula K. Le Guin |
Data | 1974 |
Pubblicazione italiana | 1976 |
Editore | Nord/Mondadori |
Traduttore | Riccardo Valla |
Titolo originale | The Dispossessed: an ambiguous utopia |
Pagine | 214 |
Reperibilità | Reperibile online e in libreria |
ll mio romanzo I reietti dell’altro pianeta narra di un piccolo mondo di persone che si sono date il nome di “odoniani”. Questo nome deriva dalla fondatrice della loro comunità, Odo, vissuta varie generazioni prima dell’epoca in cui si svolge il romanzo e che pertanto non partecipa alla vicenda (se non implicitamente, nel senso che tutto è cominciato da lei).
L’odonianismo è anarchia. Non quella roba tipo bomba in tasca, che invece – con qualunque nome cerchi di darsi lustro – è terrorismo puro e semplice; non il libertarismo socio-darwinista dell’estrema destra; ma l’anarchia prefigurata dal taoismo delle origini ed esposta da Shelley e Kropotkin, da Goldman e Goodman. Il principale bersaglio dell’anarchia è lo stato autoritario, capitalista o socialista che sia; la sua principale componente morale-pratica è la collaborazione (solidarietà, aiuto reciproco). Di tutte le teorie politiche è la più idealistica e per me la più interessante.
Inserirla in un romanzo, cosa che prima non era mai stata fatta, fu per me un lavoro duro e lungo e mi assorbì completamente per vari mesi. Quando lo terminai mi sentii perduta, esiliata: una persona senza più patria.Ursula K. Le Guin, I Dodici punti Cardinali, trad. it. di Roberta Rambelli, Editrice Nord, Milano, 2004, p.273.
La Le Guin scrive questo pezzo per introdurre un racconto su Odo (prima o poi recensirò l’antologia in cui è presente): mi è sembrato azzeccato per introdurre questa recensione.
Il protagonista è Shevek, un fisico teorico che lavora alla Teoria Temporale Generale, le cui equazioni potrebbero dar luce all’ansible, una “cosa semplice” che permetterebbe la comunicazione istantanea tra mondi differenti. Tuttavia su Anarres, il pianeta anarchico, non riesce a sviluppare a pieno le sue idee: nessuno è in grado di comprenderlo correttamente, a differenza dei fisici di Urras, il pianeta gemello, l’inferno da cui si sono esiliati gli odoniani circa 170 anni prima. La storia si sviluppa su due livelli temporali: Shevek su Anarres, quindi la sua infanzia, la sua crescita, la scoperta dell’amore, i suoi primi studi; e Shevek su Urras, dove entra in contatto con la società capitalistica di A-Io e prova a ultimare il suo lavoro.
La trama scorre velocemente e non ho avuto particolari problemi: non ci sono parti noiose o non necessarie. Mentre gli altri libri di Ursula mi fanno emozionare in alcune parti bene precise, ne I reietti l’emozione è stata generale, diffusa. Forse alla prima lettura può sembrare un po’ ostico, considerando i due livelli della narrazione: ma non demordete, perché ne vale sicuramente la pena.
Qui Ursula Le Guin eccelle, e non ho paura di esagerare. Potrei parlare per ore di Urras e Annares, i pianeti gemelli, senza stancarmene; in alcuni casi lascerò che sia il libro a parlare.
Vediamo Urras da molteplici punti di vista. Su Anarres, viene descritta come infernale; quando Shevek va su A-Io, vede una natura ricca, piena di flora e fauna, fiori e animali mai visti. L’Università di Ieu Eun e la città di Nio Esseia, scintillante, magnifica, fatta di acciaio e vetro. Tuttavia, questa è la Urras che lo Stato vuole mostrare a Shevek: il marcio, i poveri, il resto del mondo è nascosto ai suoi occhi.
Un esempio interessante di differenza tra Urras e Anarres è il sistema universitario; Shevek rimane colpito del sistema degli esami degli urrasiani.
Erano superbamente addestrati, quegli studenti. La loro mente era fine, acuta, pronta. Quando non lavoravano, riposavano. Non venivano resi ottusi e distratti da una decina di altri impegni. Non cadevano mai addormentati in aula perché erano stanchi dopo avere prestato servizio nei lavori a rotazione, il giorno precedente. La loro società li manteneva in assoluta libertà dal bisogno, dalla distrazione e dalle preoccupazioni.
Quel che erano liberi di fare, tuttavia, era un altro discorso. Pareva a Shevek che la loro libertà da altri impegni fosse esattamente proporzionale alla loro mancanza di libertà d’iniziativa.
Egli rimase stupefatto del loro sistema di esami, quando gli venne spiegato; gli pareva che il procedimento di ficcarsi in testa informazioni per rigettarle a richiesta dovesse essere quanto di più efficace per disamorare il naturale desiderio di imparare che ciascuno porta in sé. Dapprima rifiutò di fare esami e di dare voti, ma ciò sconvolse talmente gli amministratori dell’Università che, non volendo essere scortese con i suoi ospiti, egli rinunciò. Chiese ai suoi studenti di scrivere una tesina sull’argomento della fisica che più li interessava, e comunicò che avrebbe dato a ciascuno il voto più alto, in modo che i burocrati avessero qualcosa da scrivere sui loro moduli e sui loro elenchi. Con sua grande sorpresa, molti studenti vennero da lui a lamentarsene. Desideravano che fosse lui a stabilire i problemi, a rivolgere le domande giuste; essi non volevano pensare alle domande, ma soltanto scrivere le risposte che avevano imparato. E alcuni di loro erano fortemente contrari al fatto che desse a tutti lo stesso voto. Come si poteva distinguere gli studenti diligenti da quelli che non avevano studiato nulla? A che scopo lavorare tanto? Se non c’erano delle classifiche competitive, tanto valeva non fare nulla.
Shevek, dopo una iniziale meraviglia, si fa un’idea diversa di Urras…
Non c’è nulla, assolutamente nulla su Urras di cui noi anarresiani abbiamo bisogno! Noi lo lasciammo con le mani vuote, cento e settanta anni fa, e avemmo ragione. Noi non prendemmo nulla. Poiché qui non c’è altro che gli Stati e le loro armi, i ricchi e le loro bugie, e i poveri e la loro miseria. Non c’è modo di agire rettamente, con un cuore trasparente, su Urras. Non c’è nulla che possiate fare in cui non entrino il profitto, e la paura di una perdita, e il desiderio di potere. Non puoi dire buongiorno a una persona senza sapere chi di voi è «superiore» all’altro, o senza cercare di dimostrarlo. Non puoi agire come un fratello verso le altre persone; devi manipolarle, o comandarle, o obbedire loro, o imbrogliarle. Non puoi toccare un’altra persona, eppure non ti lasceranno mai solo. Non c’è libertà. È una scatola… Urras è una scatola, un pacchetto, con tutta la sua meravigliosa confezione del cielo turchino e dei prati e delle foreste e delle grandi città. E tu apri la scatola, e cosa ci trovi dentro? Una cantina buia piena di polvere, e un uomo morto. Un uomo cui fu troncata la mano perché la tendeva agli altri. Sono stato nell’inferno, infine. Desar aveva ragione; è Urras; l’inferno è Urras.
Anarres non è un pianeta ideale per viverci: è soggetto a frequenti siccità, non ci sono animali eccetto i pesci, la vegetazione cresce con difficoltà (a parte le piante di hollum, da cui gli odoniani ricavano cibo e vestiti).
Anarres risultò essere asciutto, freddo e ventoso, e il resto del pianeta risultò essere ancora peggio. La vita sul pianeta si era evoluta soltanto fino ai pesci e alle piante senza fiori. L’aria era sottile, come quella di Urras a un’elevata altitudine. Il sole bruciava, il vento raggelava, la polvere era soffocante.
Nonostante le avversità del pianeta, la colonia che vi si è insediata è, per dirlo con le parole della terrestre Keng,
un esperimento di comunismo non autoritario, che sopravvive da centosettant’anni.
Sicuramente l’aspetto più geniale del libro è stata la capacità di creare un’utopia realistica e convincente, ma non per questo perfetta: il sottotitolo, che non è presente in italiano, è infatti an ambiguous utopia (questo tema si ricollega bene con il racconto Paradisi Perduti). Ma su cosa si basa questa anarchia? Un aspetto fondamentale è la solidarietà, l’assistenza reciproca: una componente così forte che lo stesso Shevek, su Urras, non riesce a fare a meno di fidarsi delle persone. Su Anarres non ci sono armi e non ci sono governi: le persone collaborano e coesistono pacificamente. I coloni hanno addirittura inventato una nuova lingua, il pravico, che si differenzia molto dallo iotico, la lingua urrasiana: capita così che su Anarres una bambina dica “puoi utilizzare il fazzoletto che uso”, piuttosto che “tieni il mio fazzoletto”. Non esiste la proprietà privata: gli odoniani “hanno” pochissime cose: qualche capo di vestiario, un paio di scarpe, un libro. Non esistono case come le intendiamo noi, ma dormitori con varie stanze, arredate in modo essenziale (senza cucina: si mangia di solito in una mensa). Una descrizione perfetta di Anarres la fa Shevek a un ricevimento su Urras:
No. Non è bello. È un mondo molto brutto. Non è come questo. Anarres è tutto polvere e colline aride. Tutto magro, tutto asciutto. E la gente non è bella. Hanno mani e piedi grossi, come me e come il cameriere che ci serve. Ma non hanno la pancia grossa. Diventano molto sporchi, e tutti fanno il bagno insieme, nessuno qui lo fa. Le città sono molto piccole e brutte, sono orribili. Non ci sono palazzi. La vita è noiosa, ed è un duro lavoro. Non sempre si può avere quello che si vuole, e neppure quello di cui si ha bisogno, perché non c’è abbastanza. Voi urrasiani avete abbastanza. Abbastanza aria, abbastanza pioggia, erba, oceano, cibo, musica, edifici, fabbriche, macchine, libri, vestiti, storia. Voi siete ricchi, voi possedete. Noi siamo poveri, noi manchiamo. Voi avete, noi non abbiamo. Ogni cosa è bella, qui. Fuorché le facce. Su Anarres non c’è nulla di bello, fuorché le facce. Le altre facce, gli uomini e le donne. Noi abbiamo solo quello, solo gli altri. Qui voi guardate i gioielli, là guardate gli occhi. E negli occhi vedete lo splendore, lo splendore dello spirito umano. Perché i nostri uomini e donne sono liberi… non possedendo nulla, sono liberi. E voi, i possessori, siete posseduti. Siete tutti in prigione. Ciascuno è solo, isolato, con il fagotto di ciò che possiede. Voi vivete in prigione, morite in prigione. E la sola cosa che posso vedere nei vostri occhi… il muro, il muro!
Il ruolo della donna viene molto discusso. Shevek si sorprende di non vedere donne che lavorano su Urras…
[Shevek] Gli aveva chiesto perché non c’erano donne sulla nave, e Kimoe aveva risposto che il funzionamento di una nave spaziale non era lavoro da donne. I corsi di storia seguiti, la conoscenza degli scritti di Odo, fornivano a Shevek un contesto entro cui collocare questa risposta tautologica, ed egli non aggiunse altro. Ma il dottore a sua volta gli rivolse una domanda a proposito di Anarres: – È vero, dottor Shevek, che le donne, nella vostra società, sono trattate esattamente come gli uomini?
– Sarebbe uno spreco di ottimo materiale – disse Shevek, ridendo; poi rise ancora quando si rese conto di quanto fossero ridicole le piene implicazioni di quell’idea.
Il dottore esitò, evidentemente occupato ad aggirare nel modo migliore uno degli ostacoli interni della sua mente, poi parve confuso e disse: – Oh, no, non intendevo riferirmi al lato sessuale… è chiaro che lei… che le donne… volevo dire, per quanto riguarda il loro stato sociale.
– Stato ha ora il significato di classe?
Kimoe cercò di spiegare lo stato sociale, non ci riuscì e infine ritornò all’argomento di partenza. – Non c’è veramente distinzione tra il lavoro degli uomini e quello delle donne?
– Be’, no, mi parrebbe una base un po’ troppo meccanica per la divisione del lavoro, non dice? Una persona si sceglie il lavoro in base agli interessi, alla disposizione, alla robustezza… che c’entra il sesso con questo?
– Gli uomini sono fisicamente più forti – affermò il dottore, con sicurezza professionale.
– Sì, varie volte, e anche più grossi, ma che importanza ha, se si hanno macchine? E anche se non si hanno le macchine, se occorre scavare col badile o portare sacchi sulle spalle, gli uomini forse lavorano più in fretta… almeno, quelli più grossi… ma le donne lavorano più a lungo. Spesso mi sarebbe piaciuto avere la resistenza di una donna.
Kimoe lo fissò ad occhi sbarrati. Lo stupore gli aveva fatto perdere le buone maniere. – Ma la perdita di… di ogni cosa femminile… della delicatezza… e del rispetto di se stessi del maschio… Lei non pretenderà, certo, nel suo lavoro, che le donne siano uguali a lei? In fisica, in matematica, nel ragionamento? Lei non vorrà pretendere di abbassarsi continuamente al loro livello?
Shevek appoggiò la schiena alla poltrona imbottita, comoda, e si guardò intorno, nel quadrato ufficiali. Sullo schermo visivo, la curva brillante di Urras era sospesa nel vuoto, immobile contro il nero dello spazio, simile a una opale verdazzurra. Quella piacevole vista, e il quadrato, erano divenuti familiari a Shevek in quegli ultimi giorni, ma ora i colori luminosi, le poltrone curvilinee, l’illuminamento indiretto, i tavolini da gioco e gli schermi televisivi e i tappeti morbidi, ogni cosa gli pareva estranea come la prima volta in cui l’aveva vista.
– Non penso di pretendere molto, Kimoe – disse.
– Naturalmente, anch’io ho conosciuto donne molto intelligenti, donne che potevano pensare proprio come un uomo – si affrettò a dire il dottore, accorgendosi di avere quasi urlato… di avere, pensò Shevek, picchiato i pugni contro la porta chiusa a chiave e di avere urlato.
Shevek cambiò argomento, ma continuò a pensare alla cosa.
O ancora, Shevek che discute con Vea, una donna urrasiana:
– Lei mi disapprova in modo così assolutamente totale… è un sollievo. Sento che qualsiasi cosa io faccia o dica, non posso cadere più in basso, nella sua opinione, poiché ho già raggiunto il fondo!
– Non è affatto vero – egli protestò. Sapeva che la donna celiava, ma conosceva poche regole di quel gioco.
– No, no; so riconoscere l’orrore morale quando lo vedo. Così. – Aggrottò la fronte in segno di disgusto; entrambi risero. – Sono davvero così diversa dalle donne di Anarres?
– Oh, certo, davvero.
– Sono tutte terribilmente forti, coi muscoli? Mettono gli stivali, hanno grossi piedi piatti, abiti senza forma, e si depilano una volta al mese?
– Non si depilano affatto.
– Non si depilano mai? Da nessuna parte? Oh, Dio! Parliamo d’altro.
– Parliamo di lei. – Appoggiò la schiena al terreno coperto d’erba, abbastanza vicino a Vea da essere avvolto dai profumi naturali e artificiali del suo corpo. – Vorrei sapere, le donne urrasiane sono contente di essere sempre inferiori?
– Inferiori a chi?
– Agli uomini.
– Oh… quello! Che cosa le fa credere che io lo sia?
– Mi pare che ogni cosa fatta dalla vostra società sia fatta da uomini. L’industria, le arti, l’amministrazione, il governò, le decisioni. E per tutta la vita portate il nome del padre e quello del marito. Gli uomini vanno a scuola, e voi non ci andate; sono maschi tutti gli insegnanti, i giudici, la polizia, e il governo, no? Perché lasciate che comandino tutto? Perché non fate ciò che vi pare?
– Ma noi lo facciamo! Le donne fanno esattamente quello che vogliono. E non devono sporcarsi le mani, o infilarsi elmetti di bronzo, o mettersi a gridare da un banco del Direttorato, per ottenerlo.
– Ma che cos’è, quello che fate?
– Come, comandare gli uomini, naturalmente! E lei deve sapere, non c’è nessun pericolo a dirlo, poiché non saranno mai disposti a crederlo. Dicono: «Ah ah, sei proprio divertente, piccola!» e ti danno un buffetto sulla nuca e poi se ne escono a passo dell’oca, pienamente soddisfatti, con tutte le medaglie che tintinnano.
– E voi siete soddisfatte?
– Naturalmente, sì.
– Non ci credo.
– Perché non si accorda con i suoi princìpi. Gli uomini hanno sempre qualche teoria, e le cose devono sempre accordarsi ad essa.
– No, non per qualche teoria, ma perché posso vedere che lei non è contenta. Che lei è inquieta, insoddisfatta, pericolosa.
– Pericolosa! – Vea rise, raggiante. – Che complimento assolutamente meraviglioso! Perché sono pericolosa, Shevek?
– Be’, perché lei sa che agli occhi degli uomini è soltanto una cosa, qualcosa che si possiede, si compra, si vende. E dunque lei pensa soltanto a ingannare il possessore, a vendicarsi…
Lei gli pose deliberatamente la piccola mano sulle labbra. – Silenzio – disse. – So che non intende essere volgare. La perdono. Ma ora basta.
Egli si aggrottò ferocemente di fronte all’ipocrisia, e di fronte alla comprensione che forse poteva averla davvero ferita. Sentiva ancora sulle labbra il breve tocco della sua mano. – Mi spiace! – disse.
Lo stile è in terza persona; il narratore onnisciente. Devo dire che si tratta di uno stile perfettamente funzionale alla trama: è bellissimo vedere tutto dagli occhi di Shevek, gli occhi di un anarchico odoniano che affronta la vita, sia su Anarres, sia su Urras.
Un aspetto che forse viene poco commentato è che… i Reietti fanno anche ridere. Non è nell’intento dell’autrice scrivere un romanzo umoristico, eppure alcune scene su Urras provocano questo effetto…
– No, no. Come può capire, lei, che viene dalla Luna? E poi, lei è soltanto un uomo…. Comunque, le dirò una cosa. Se prendeste una delle vostre «sorelle», lassù sulla Luna, e le deste la possibilità di togliersi gli stivali, e di fare un bagno e un massaggio e una depilazione, e di infilarsi un paio di sandaletti allegri, e di mettersi un gioiello all’ombelico, e del profumo, la cosa le piacerebbe, glielo assicuro. E piacerebbe anche a voi! Oh, come vi piacerebbe! Ma voi non lo fareste mai, voi, povere cose, con le vostre teorie. Tutti fratelli e sorelle, e niente divertimento.
– Ha ragione – disse Shevek. – Niente divertimento. Mai. Su Anarres stiamo tutto il giorno a scavare piombo nelle budella delle miniere, e quando viene la notte, dopo il solito pasto di tre grani di holum cotti in un cucchiaio di acqua di mare, recitiamo antifonicamente i Detti di Odo, fino all’ora di andare a letto. Cosa che facciamo tutti separatamente, e senza sfilarci gli stivali.
O ancora:
Si avviarono per il pranzo e vennero raggiunti a tavola da due bambini. Sewa Oiie disse, a mo’ di scusa: – Sa, non si riescono più a trovare bambinaie decenti, da questa parte del paese. – Shevek annuì, senza sapere che cosa fosse esattamente una bambinaia. Osservava i bambini con lo stesso sollievo, lo stesso diletto di sempre. Non aveva più visto bambini da quando aveva lasciato Anarres.
La nascita del mio libro I reietti dell’altro pianeta è stata ugualmente chiara, ma divenne molto confusa prima di ridiventare nuovamente chiara. Anch’esso è cominciato con una persona, che vedevo molto più da vicino, questa volta, e con intensa vividezza: questa volta era un uomo, uno scienziato, un fisico, per esattezza; ne vedevo il volto in modo più chiaro del solito, una faccia magra, con grandi occhi chiari, e grandi orecchie (queste ultime credo provenissero dal ricordo infantile che avevo di Robert Oppenheimer da giovane). Ma più vivida di qualsiasi dettaglio visivo era la personalità, che mi attraeva enormemente, mi attraeva, voglio dire, come la luce di una falena. Là, eccolo là, ci devo arrivare questa volta… […] A proposito, come ti chiami? Shevek, mi ha risposto immediatamente. Va bene, Shevek. Allora, chi sei? La sua risposta fu meno pronta, questa volta. Credo, mi ha detto, di essere un cittadino di Utopia. Molto bene. Quelle parole avevano un suono ragionevole. C’era qualcosa di così generoso in lui, era tanto intelligente, e tuttavia ingenuo in modo così disarmante, che avrebbe anche potuto venire da un posto migliore di quello. Ma dove? Il poto migliore; nessuno. Che ne sapevo io di Utopia? Brani di Tommaso Moro, frammenti di Wells, Hudson, Morris. Niente. Mi ci vollero anni di letture e riflessione e confusione, e molta assistenza da parte di Engels, Marx, Godwin, Goldman, Goodman, e soprattutto Shelley e Kropotkin, prima di poter cominciare a vedere da dove veniva, e il paesaggio che lo circondava […], e le altre persone, le persone che vedeva con i suoi occhi; e il posto, quell’altro luogo in cui doveva recarsi, e da cui ora sapevo, come aveva sempre saputo lui, perché doveva ritornare. […] A volte il proposito morale dei Reietti dell’altro pianeta è pienamente concretizzato, a volte no. In alcune occasioni si può udire il rumore di lance che vengono spezzate. Tuttavia credo fortemente che esso sia, fondamentalmente, un romanzo, perché al suo centro non si troverà un’idea, o un messaggio ispiratore, e nemmeno un’ascia di pietra, ma una cosa molto più fragile, più oscura, e più complessa: una persona. Questa mia opinione è stata rafforzata dal rendermi conto che quasi tutti i recensori, per quanto si lascino trasportare dalla difesa, o dall’attacco o dalla spiegazione delle idee e dei temi del libro, in qualche punto della discussione menzionano il protagonista chiamandolo per nome. Eccolo lì! Eccolo, anche se solo per un momento, Se anche ho dovuto inventare due interi mondi per arrivare a lui, due mondi con tutti i loro affanni, ne è valsa la pena. Se ho potuto dare ai lettori un barlume di quello che ho visto: Shevek, la signora Brown, l’Altro, un’anima, un’anima umana, “lo spirito di cui viviamo…”
Ursula Le Guin, Il Linguaggio della Notte, tr. it. di A. Sacchi, Editori Riuniti, Roma, 1986 pp. 100-102.
In un colpo solo abbiamo una bellissima descrizione di Shevek, e la sua genesi nella mente della scrittrice. Ribadisco che la cosa più interessante è vedere il mondo con i suoi occhi… e alla fine mi sono affezionato a lui.
Takver, la compagna di Shevek, è una genetista dei pesci. I rapporti tra i due sono particolarmente interessanti, dalla loro relazione, al modo in cui li vedono gli amici, alle lettere che si scambiano quando sono separati (in uno stile telegrafico, tipico degli odoniani). La Le Guin non si tira indietro quando si parla di sesso, e così voglio illustrarvi una bella scena…
Ritornarono al Domicilio Otto, Stanza 3, e laggiù il loro lungo desiderio venne esaudito. Non accesero neppure la lampada; ad entrambi piaceva fare l’amore al buio. La prima volta entrambi vennero quando Shevek entrò in lei, la seconda volta lottarono e piansero in una rabbia di gioia, prolungando il loro culmine come procrastinare il momento della morte, la terza volta erano entrambi semiaddormentati, e girarono attorno al centro d’infinito piacere, attorno al reciproco essere, come pianeti che girassero ciecamente, tranquillamente, nella marea della luce solare, intorno al centro comune di gravità, oscillando, circolando interminabilmente.
Bedap è un amico storico di Shevek e Tavker; è omosessuale, e la cosa è assolutamente “normale” su Anarres. C’è una scena molto forte verso la fine del romanzo: la figlia di Shevek ha una crisi, Shevek cerca di consolarla. Bedap si sente un estraneo e improvvisamente malinconico…
Shevek la prese fra le braccia. Sedik si tenne a lui con tutta la sua forza, piangendo con grandi singhiozzi. Era troppo vecchia, troppo alta perché Shevek la prendesse in braccio. Rimase fermo ad abbracciarla, accarezzandole i capelli. Alzò gli occhi al di sopra della testa della bambina e guardò Bedap. Anche i suoi occhi erano pieni di lacrime. Disse: – Tutto a posto, Bedap, vai pure.
Bedap non poteva fare altro che lasciarli, l’uomo e la bambina, in quell’unica intimità ch’egli non poteva condividere, la più dura e la più profonda, l’intimità del dolore. Il fatto di andarsene non gli diede alcun senso di sollievo o di fuga; invece, si sentì inutile, sminuito. «Ho trentanove anni» pensò, mentre si dirigeva al proprio domicilio, la stanza da cinque uomini in cui viveva in perfetta indipendenza. «Quaranta tra poche decadi. Che cosa ho fatto? Che cosa continuo a fare? Nulla. Mettermi in mezzo. Mettermi in mezzo nella vita degli altri perché non ne ho una mia. Non me ne sono mai dato il tempo. E il tempo mi sfuggirà, tutto d’un tratto, e io non avrò mai avuto… quello.» Si guardò alle spalle, nella strada lunga e tranquilla, dove le lampade formavano morbide pozze di luce nell’oscurità di vento, ma ormai si era allontanato troppo per vedere ancora il padre e la figlia, oppure essi se n’erano andati. Non avrebbe saputo dire cosa intendesse con «quello», sebbene fosse bravo con le parole; eppure sentiva di comprenderlo chiaramente, sentiva che tutta la sua speranza stava in quella comprensione, e che se voleva salvarsi doveva cambiare vita.
I reietti dell’altro pianeta è un libro che mi ha cambiato la vita. Non potrò mai essere grato abbastanza a Ursula Le Guin; spero che leggerlo vi scuota nel profondo com’è successo a me.
Voto: 10+/10
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Premettendo che non sapevo quasi nulla di questo libro e che non ho ancora avuto il piacere di leggere nulla della Le Guin, “I reietti dell’altro pianeta” mi ha dato l’impressione di essere un romanzo molto intelligente e sapientemente costruito. Sembra anche avere mille cose da dire, e immagino come debba esser stato difficile riassumere tutto in un’unica recensione.
Ho trovato molto bella l’idea di aggiungere quei piccoli brani in cui è la Le Guin a parlare e a spiegare come ha elaborato il concept dell’intero romanzo, che di sicuro aiuta a dare un’idea del tutto senza dilungarsi troppo. È incredibile come un romanzo intero possa nascere da un’idea a volte molto fumosa, ma come da essa più possano dipanarsi tante possibilità e soprattutto che richieda tanto lavoro e studio di preparazione.
È stato molto interessante e divertente dare uno sguardo sul mondo de “I reietti”, dalle usanze e lo stile di vita di entrambi i popoli a, e riuscire a farsi anche un’idea del protagonista, Shevek.
Molto interessante la parte dedicata al tema della donna e dell’emancipazione femminile. L’autrice è riuscita a cogliere proprio il nocciolo della questione per quanto riguarda la contrapposizione dei due tipi di donna, che tra l’altro mi ha ricordato un sacco di conversazioni (o meglio, discussioni) che ho davvero avuto con amiche/colleghe.
Seppur sia stato scritto negli anni ’70 (e un po’ si intuisce che è figlio dei suoi tempi ed è perfettamente congruo al suo contesto storico, scritto sotto la spinta dei vari movimenti anarchici nati all’epoca), rimane molto attuale ancora oggi. Anzi, ora che siamo stati inglobati e ci siamo abituati alla nostra società figlia del capitalismo, potrebbe essere letto e trovato ancora più illuminante per le nostre coscienze.
Di sicuro questo piccolo insight sui “Reietti” invoglia a prendere il libro e leggerlo, quindi penso che tu sia riuscito nel tuo intento. ^^
Se lo trovo al salone del libro, lo prendo. (Aaaaargh già troppi libri in listaaaa!!)
Si vede che questo romanzo significa molto per te, la passione che ci hai messo invoglia a leggerlo quasi più dei paragrafi. Mi ha colpito molto la parte di Bedap; in genere la Le Guin è molto eterea e fumosa, fa parte del suo stile, ma lì ha centrato davvero il concetto in pieno, e ti si imprime nel cervello.
Altra vittima conquistata, questo titolo va dritto in whishlist. ^_^